ROMA-SAMPDORIA. A PRIMA VISTA… di Paolo MARCACCI
Fateci e facciamoci caso: le altre società, con i relativi ambienti, hanno atteso il ritorno degli impegni agonistici valutando convenienze di classifica e relativi obiettivi e rischi, ipotizzando con realismo il più vantaggioso dei mercati possibili, ragionando sulla particolare contingenza contrattualistica di questa anomala stagione. Alla Roma no; alla Roma son volati gli stracci, se ci passate la similitudine. Hanno concorso in tanti, oltre i numeri del bilancio: dai commenti poco utili (eufemismo) del non convocato Juan Jesus a ritroso fino ai detonanti sms del sospeso Petrachi. C’è stata in tutta Europa un’altra polveriera simile, per quanto attiene alle polemiche?
In questo senso è salvifico il ritorno del pallone che rotola, pur nell’eco di uno stadio vuoto e riempito soltanto da incoraggiamenti e imprecazioni varie. Perché il calcio è questo e, aspettando il ritorno del pubblico, è perlomeno realistico quando si mostra come stasera: nudo, semplicemente.
A livello scenografico, bella e “calda”, se così si può dire, la scelta di circondare il terreno di gioco con la simbologia giallorossa della tradizione. Quando si dice: l’appartenenza.
Dalle dichiarazioni di Fonseca alla vigilia, una cosa si era capita: un paio di sorprese c’era da aspettarsele, quindi sta al lettore decidere se considerarle o meno ancora tali.
Pastore, Ibanez, Carles Pérez: due su tre erano presumibili; il primo nel quarto d’ora iniziale si segnala per un paio di percussioni apprezzabili e per il tentativo di mettersi in proprio per quanto riguarda le conclusioni. Se dovessimo giudicare l’approccio e i primi dieci minuti, diremmo che Audero merita già sette in pagella, per la reattività su Dzeko in un paio di occasioni.
Col vantaggio sampdoriano, causato da un cortocircuito comunicativo tra Diawara e Ibanez di cui beneficia Gabbiadini, la Roma si ritrova di fronte il suo principale avversario: la frustrazione alla prima contrarietà. Il primo tempo se ne va con la marea montante di una sensazione: si opacizzano quasi subito i solisti; la Samp ha buon gioco nel far valere la sua assennatezza tattica; la manovra romanista impatta sistematicamente, tanto che Dzeko, al solito, arretra il proprio raggio d’azione per andare a prendersi la palla poco oltre il cerchio di centrocampo. E, questo non lo avremmo mai detto, dopo quarantacinque minuti sono più numerose, globalmente, le conclusioni di Ekdal e compagni verso Mirante che quelle dei giallorossi verso Audero. Cercasi Mkhitaryan disperatamente.
Era gol quello di Veretout? Per noi sì, anche con le regole attuali si può eccepire su un “fallo” di mano col braccio appiccicato alla cassa toracica. Su altri campi abbiamo visto rigori negati dopo tocchi di mano plateali.
Allo scoccare dell’ora di gioco, triplice cambio di Fonseca: Cristante, Zappacosta e Pellegrini per Diawara, Peres e uno svanito Pastore.
Al tecnico portoghese arriva subito un terzo di ragione: biglia di Pellegrini dalle retrovie e volée di Dzeko: uno a uno.
Comincia una terza partita? Forse, e con i ritmi più bassi la qualità della Roma può riprendersi la ribalta, come dimostra il palo interno colpito da Kolarov in seguito all’intelligentissima soluzione rasoterra su calcio di punizione.
È arrivato anche Under in luogo di Carles Peres. La Samp picchia di più; però il cartellino di Calvarese lo becca Mkhitaryan. Minuto 85: Veretout fa partire dalle retrovie il lancio millimetrico e millimetrato, se ci passate l’espressione, per Dzeko che stana tutti i ragni del mondo dal proprio nido: diagonale carezzevole, angolino basso, due a uno. Sì è (ri)preso la Roma sulle spalle il bosniaco.
In un calcio convalescente, la squadra di Fonseca è riuscita a non apparire malata, alla fine. Al posto del boato che non c’è, sale in alto un pensiero, commosso, a Pierino Prati.