ACCADDE OGGI… 4 maggio: Superga e l’Italia che tornò a credere negli eroi
«Bacigalupo Ballarin Maroso, Grezar Rigamonti Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola…». Quasi una litania, un rosario recitato d’un fiato, in cui i nomi degli eroi scanditi, sempre con una punta di stentorea devozione, si mescolano nella mente ai volti antichi e alle chiome imbrillantinate dei giocatori di quella che fu molto di più di una strepitosa squadra di calcio. Per decenni nelle case della gente semplice, anche di chi non ha mai seguito il fotbàl, anche di chi tifava per un’altra squadra, la foto, spesso colorata a mano, di quegli undici ragazzi stava là, su un altarino, tra quella di Papa Giovanni e quella di Padre Pio.
Il Grande, grandissimo, Torino, quell’irripetibile gruppo di campioni che fu fenomeno sportivo, sociale e di costume nella martoriata Italia degli anni Quaranta, il 4 maggio 1949 entrava nella leggenda. Contro i muraglioni della Basilica di Superga, avvolti dalla nebbia, su una collina che circonda il capoluogo piemontese, alle 17.05, si schianta l’aereo che riporta in patria l’intera squadra da una gara amichevole in Portogallo (diciotto giocatori, l’allenatore Lievesley, il direttore tecnico Erbstein, lo staff , tre giornalisti al seguito, l’equipaggio).
L’impatto e il rogo che ne segue non lasciano scampo. Istantaneamente muoiono in 31: le salme dei giocatori, sfigurati e dilaniati, riconosciute una ad una da Vittorio Pozzo, storico e ormai anziano commissario tecnico della nazionale italiana che quei ragazzi li conosce come un padre ed evita così ai congiunti uno strazio ulteriore. La notizia della tragedia lascia attonita l’Italia, l’Europa e il mondo intero. Ai funerali a Torino accorrono un milione di persone e i cinegiornali con le immagini dell’estremo saluto a quei campioni sfortunati fanno il giro del pianeta.
Il campionato 1948/49 (al cui termine mancavano ancora 4 giornate) viene assegnato al Torino d’ufficio e nelle partite restanti i granata e gli avversari schierano le formazioni giovanili. Il cordoglio unanime, lo sgomento e il dolore accompagnano nel mito forse la più forte squadra di calcio di ogni tempo. È il Torino degli invincibili, dei cinque scudetti consecutivi, dell’inespugnabile stadio di casa, il Filadelfia, dei giocatori che per dieci undicesimi compongono la nazionale azzurra contro l’Ungheria, dell’infinita serie di record sportivi.
Una storia che assomiglia ad un romanzo, romantico e struggente, un’epopea che appartiene a un mondo senza televisione, fatto dei ricordi di chi c’era e rivissuto sulle ali della fantasia. Capitan Valentino («Mazzola» era pleonastico) che si rimbocca le maniche, quasi un segnale in codice, quando il Torino sonnecchia ed è chiamato ad una grande rimonta con il «quarto d’ora dei gol». Il boato inconfondibile che sale dalla tribuna di legno e di ghisa del Filadelfia a sciogliere l’impeto degli avversari. Le astuzie caracollanti dei Loik, le prodezze atletiche impossibili dei Menti, dei Gabetto, degli Ossola. I voli plastici di Bacigalupo e le iperboliche imprese difensive dei Maroso, dei Ballarin, dei Rigamonti, baluardi insormontabili per qualunque avversario che si giocasse a Vercelli o in Brasile.
Una leggenda fatta di innumerevoli aneddoti e delle storie personali di ragazzi che seppero tuttavia essere qualcosa di più e di diverso di una memorabile squadra di calcio. Il Grande Torino servì a ridare speranza e fiducia ad un’Italia mortificata, sepolta dalle macerie materiali e morali di una guerra devastante. Nell’immaginario collettivo di un Paese umiliato gli eroi in maglia granata restituirono a tutti gli italiani l’orgoglio di poter credere in qualcuno e diedero l’esempio di quanto anche un popolo di individualisti potesse raggiungere risultati straordinari facendo un lavoro di squadra e tornando così a guadagnarsi il rispetto delle altre nazioni. Solo con la tragedia di Superga un Paese intero riuscì ad elaborare il lutto di una guerra perduta nel disonore. Presto la civiltà contadina sarebbe tramontata per sempre e l’Italia sarebbe diventata a prezzo di grandi sacrifici una nazione moderna. La storia di quella squadra leggendaria in apparenza può oggi sembrare lontanissima. Invece, come scrisse Indro Montanelli «gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. Il Torino non è morto: è soltanto in trasferta».
(Fonte: Corriere del Ticino)