SO’ CONFUCIO di Paolo MARCACCI
In questo momento si avverte il bisogno di tante cose, sul fronte romanista, ma forse si può fare a meno della ricerca spasmodica di un capro espiatorio: sarebbe, peraltro, l’ennesimo errore, che andrebbe a sommarsi ai tanti commessi in precedenza. Dopo il mesto finale di ieri sera ci sarebbe il candidato ideale, ossia Aleksandar Kolarov, per il suo gesto polemico verso alcuni occupanti della Tribuna Tevere, mentre Dzeko, Smalling e altri compagni applaudivano il pubblico per simboleggiare una richiesta di scuse.
Molto più significativa e dignitosa sarebbe stata la mossa di predisporre un ritiro fino a data da destinarsi, sin dalla serata di ieri. Ritiro non punitivo, attenzione, anche se l’aggettivo non sarebbe fuori luogo; ritro motivazionale, compattante, responsabilizzante. Per ritrovare un’unità d’intenti che sul finire del 2019 ci era sembrato di vedere, non solo per i risultati. Tutto è stato demolito da un Torino boccheggiante, da una Juventus con tante pause, da un Sassuolo spumeggiante, dal Bologna organizzatissimo e autorevole di ieri. Indipendentemente dal nome dell’avversario, la Roma ha cominciato in tutte queste occasioni a sconfiggersi da sola: per svagatezze, disattenzioni varie, condizione atletica rivedibile (come mai?), fragilità psicologica più volte evidenziata da Paulo Fonseca, al quale va ricordata una regola aurea della psicoanalisi, quella secondo la quale capire non corrisponde a guarire.
Anche noi che scriviamo, che commentiamo e che la Roma cerchiamo di raccontarla, dovremmo forse fare un mea culpa collettivo per aver tarato all’eccesso troppi aggettivi, troppe definizioni; soprattutto, per aver attribuito la patente di leader a più di un giocatore che ancora deve rivelarsi tale. Vale anche per i voti e le valutazioni date al mercato estivo.
Occorre invece essere spietati per quanto riguarda un’altra gamma di aggettivi, ossia quelli che riguardano i tifosi. Negli anni, questi anni di gestione americana, il tifoso romanista è parso prima fiducioso, poi sempre più disorientato, a tratti esaltato da da serate che, vale la pena ricordarlo, lo hanno inorgoglito ma che non hanno riempito nemmeno un angolo polveroso di bacheca; quindi arrabbiato ma infine immalinconito, fino al punto da diventare rassegnato e, dopo una serie di ridimensionamenti persino nei sogni o nelle illusioni, assuefatto. Ecco, sì, assuefatto: come se non ci fosse altro destino possibile che quello di una mediocrità non aurea, esibita persino con garbo. Il peggiore dei destini.
Come se da queste parti non fossero mai passati due signori che si chiamavano Dino Viola e Franco Sensi, a insegnare a una città intera la legittimità e l’orgoglio delle grandi ambizioni.