NATI OGGI… Aldo MALDERA
Oggi il “terzino gentiluomo” Aldo Maldera avrebbe compiuto 66 anni ma un destino crudele ce lo ha portato via sette anni fa. Campione d’Italia del 1983, era uno dei fedelissimi di Liedholm, ma soprattutto un titolare inamovibile in quella formazione pressoche perfetta. Scelse prima la Roma e poi Roma, dopo le tante stagioni milanesi. Prima calciatore, poi allenatore delle giovanili. Se n’è andato troppo presto, aumentando i rimpianti di chi lo aveva conosciuto e amato.
Per ricordarlo, vi proponiamo l’articolo scritto sul numero 351 (SETTEMBRE 2016) dalla sapiente penna di Paolo Marcacci nella rubrica “Schegge di Memoria”…
Case di ringhiera, fuliggine, accenti meridionali che si dibattono tra lo smarrimento e la speranza: è la Milano degli anni cinquanta, maniche rimboccate per ricostruire, pane da guadagnarsi lontano da casa; la Puglia nel cuore e nella parlata nitida di mamma e papà. L’unico lusso di un oratorio, dove la polvere del campetto si stende uniforme sulla passione a cui dare sfogo, sulla maniera più semplice per crescere e imparare la vita, che rimbalza con la stessa irregolarità del pallone sbucciato. Se poi vali, quel pallone e quei sassolini lo dimostrano meglio di un’accademia e un futuro che ancora non sai comincia a correrti accanto, anche se l’unico fischio che ti ferma è la chiamata di tua madre che ti ordina di rientrare.
Aveva gambe esili e pallide il piccolo Aldo Maldera; il sciur Crippa le spalmò per bene di fango: dovevano avere un aspetto più sano e vissuto, il giorno del provino. Fu una formalità, il ragazzino aveva le stimmate del predestinato, inconsapevole come tutti gli umili di quanto già fosse forte, di quanto sciolta apparisse la sua corsa su quella fascia di cui aveva subito sentito il richiamo; di come gli venisse naturale armare quel sinistro secco e preciso. Era nato il 14 ottobre del 1953 a Bresso, alle porte del capoluogo lombardo, dove i genitori si erano trasferiti da Corato, in provincia di Bari, già con due figli al seguito, Attilio e Gino: anche loro sarebbero diventati calciatori, quindi predecessori di Aldo; nessuno dei due si sarebbe rivelato forte quanto lui. Vista la sequenza delle nascite e il menù di casa che prevede pane e pallone, i tifosi e i giornalisti lo identificano come Maldera III, col numero romano.
L’umiltà del ragazzino non sbiadisce con il trascorrere dell’infanzia; al giovane calciatore viene molto più naturale dimostrare la propria forza e le proprie doti invece che parlarne; resterà imbarazzato anche nel ricordarsi di quelle ambizioni che nel frattempo saranno divenute realtà, perché continuerà a parlare di sé come di uno che a un certo punto ha iniziato a pensare di poter diventare calciatore, forse addirittura di poter esordire a San Siro e di vestire la maglia rossonera, quella del cuore, ma mai di esser degno di giocare assieme a Gianni Rivera.
Nel frattempo, sarà diventato un protagonista indiscusso nel Milan, il club per cui tutti fanno il tifo in casa Maldera e vestirà la maglia del Diavolo dalla stagione ’71-’72 a quella ’81-’82, con la parentesi del campionato ’72-’73 trascorso in prestito al Bologna. Un decennio importante e controverso per il club rossonero, che Maldera saluta nell’estate del 1982, dopo aver contribuito alla risalita in Serie A di un Milan che aveva conosciuto – come la Lazio – l’onta della retrocessione dopo lo scandalo del calcio-scommesse.
Il ragazzo che non osava neppure sperare di giocare un giorno con Gianni Rivera, sarà compagno di squadra del Golden boy del calcio italiano e titolare inamovibile del Milan per centinaia di partite: se è vero che quando parte sulla fascia sinistra Rivera riesce sempre a servirlo con lanci dai giri contati, che gli recapitano la sfera sui piedi, è altrettanto certo che il numero dieci rossonero può permettersi di spedire il pallone da quella parte anche a occhi chiusi, certo del fatto che Maldera si farà trovare al posto giusto. Tra l’altro, tanto per dire quanto il destino sappia essere bizzarro, il suo esordio in Serie A avviene il 26 marzo del 1972, contro il Mantova; quel giorno Rivera è indisponibile e la maglia numero dieci finisce proprio sulle spalle del giovane Aldo, che all’emozione dell’esordio deve sommare quella di un numero così pesante da portare a spasso sulla fascia sinistra.
Che tipo di giocatore è stato? Un terzino – oggi lo definiremmo esterno basso – dalla corsa agile, dall’eccellente bagaglio tecnico e quindi capace di controllare il pallone anche in progressione; dal sinistro morbido quando si tratta di piazzare i cross dal fondo, potente e preciso nelle occasioni – frequenti, nel suo caso – in cui c’è la possibilità di inquadrare la porta. Quest’ultima attitudine la affina soprattutto grazie a Nils Liedholm, il quale lo spinge a utilizzare quel piede mancino non solo per buttare la palla in mezzo all’area, ma anche per battere a rete dalla distanza, in virtù delle sue innate doti balistiche.
Nella stagione ’78-’79 l’opera di convincimento del Barone ottiene il massimo dei suoi frutti: dopo undici anni di astinenza il Milan si laurea campione d’Italia; è uno scudetto storico per più di un motivo, è l’ultimo anno di Rivera ed è al tempo stesso quello del decimo titolo, la tanto agognata stella. Aldo Maldera è protagonista indiscusso di quella stagione: è fonte e chiave di gioco, soluzione offensiva e – Liedholm dixit – assiduo realizzatore, perché in quel Milan votato al palleggio e senza un autentico centravanti di ruolo, lui mette a segno ben nove reti risultando il vicecapocannoniere della squadra, con tre reti meno di Bigon, due più di Chiodi. Nel frattempo è già entrato nel giro della nazionale, con la quale disputa il Mundial argentino del 1978 giocando soltanto la finale per il terzo posto contro il Brasile; come concorrente nel ruolo trova un certo Antonio Cabrini.
Nell’estate del 1982, dopo aver contribuito a riportare il Milan in Serie A, Maldera sceglie la Roma. A chiamarlo nella capitale è ancora Nils Liedholm, che ben conosce il suo pregio tecnico e la sua affidabilità. Oltre alla stima del Barone però, un’altra ragione forse più profonda sposa il mancino milanese alla maglia giallorossa: è arrivato vicino al compimento dei trent’anni, quell’età che per i calciatori di ieri e di oggi rappresenta la linea d’ombra, la fase di passaggio tra la maturità e l’inizio del declino. Un giocatore normale in questa fase punta ad assicurarsi i contratti più lunghi e remunerativi che può; un grande giocatore sceglie di rimettere in discussione se stesso, accettando l’ennesima sfida. A questa schiera più ristretta appartiene Aldo Maldera, che approda in una squadra ormai rodata come grande collettivo e al tempo stesso caratterizzata da grandissime individualità, da Falcão a Bruno Conti, passando per Di Bartolomei, Pruzzo e tanti altri.
Un gruppo attrezzato e pronto per vincere, che anzi avrebbe già meritato la vittoria un paio di stagioni prima, se Turone non fosse passato alla storia. Maldera, corsa ed esperienza con punteggiatura di gol pesanti – come quello segnato in casa dell’Ipswich Town nel ritorno dei trentaduesimi di finale di Coppa Uefa con una bordata di sinistro che brucia i guanti di Sivell -, diviene subito una tessera pressoché insostituibile nel mosaico allestito da Liedholm e nel maggio 1983 bagna i folti baffi col nettare dello scudetto: per lui è il secondo tricolore della carriera, per il popolo romanista un sogno atteso da quarantuno anni. Resterà per altre due stagioni, di grandi partite e di un enorme rammarico, suo e di ogni tifoso della Roma: quel cartellino rimediato da Vautrot nella semifinale contro il Dundee, che gli negherà la finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool. Ancora oggi, ogni tifoso giallorosso che ricordi quella notte maledetta, non può fare a meno di rimpiangere l’assenza di Maldera, sia come trascinante uomo di fascia che come sicuro e affidabile rigorista.
Una volta appesi gli scarpini al fatidico chiodo, dopo le due ultime stagioni trascorse a Firenze, torna a scegliere Roma, riempiendosi la vita di affetti e gli occhi del mare di Fregene. Quanto costerebbe, oggi, un esterno con le sue caratteristiche? Tanto. Ma continuerebbe a non avere prezzo l’uomo che c’era dietro al calciatore, perché come diceva Bertolt Brecht “Era una persona perbene, potremmo dire di lui qualcosa di meglio?”.
Se n’è andato all’improvviso, Aldo Maldera, il primo di agosto del 2012, a soli 58 anni. L’unica sua “fuga” che non abbiamo apprezzato per nulla. Il valore degli uomini lo dimostra il dolore che provocano quando se ne vanno: per lui s’è tolto il cappello l’intero calcio italiano, che forse lo aveva dimenticato come spesso accade con chi sa stare al proprio posto, senza chiedere o rivendicare nulla. Con rimpianto e affetto lo hanno ricordato, tra gli altri, Bruno Conti che lo ebbe come amico e compagno di squadra; Francesco Totti, che mise un talento bambino nelle sue mani di maestro timido, di calcio e di vita.
Nel Paradiso dei giusti, continua a correre una maglia numero tre.