TANTI AUGURI A… Rudi VOELLER!
Oggi il “Tedesco Volante” compie 59 anni!
Per celebrare degnamente uno dei più grandi Bomber giallorossi, rimasto nella mente e nei cuori dei suoi tanti tifosi, vi proponiamo articolo del Prof Paolo Marcacci, uscito sul numero 358 (aprile 2017). Buona lettura ed ancora tanti tanti auguri, “Tedesco Volante”
LA ROMA 358 – Aprile 2017
SCHEGGE DI MEMORIA: RUDI VOELLER di Paolo MARCACCI
Qual è quel miracolo del calcio che ferma il tempo, nella gratitudine dei tifosi? Cos’è, dimmi cos’è, che fa partire lo stesso coro che ti avevano dedicato quasi trenta anni fa, anche adesso che torni in mezzo a un popolo che non smetterà mai di essere il tuo, con la giacca, la camicia, il grigio alle tempie e l’aria signorile? Forse non basta essere stato un grande giocatore, forse non si spiega con i trofei, i record, le vittorie e le statistiche che raccontano della tua forza, della tempra che inseguiva se stessa ogni volta che un lancio ti veniva a cercare, del tuo ricominciare a correre fino all’ultima stilla di sudore e anche oltre, se possibile. Forse più della Coppa del mondo c’è il fatto che chi è invecchiato assieme a te continua a ringraziarti, come se fosse appena uscito dallo stadio. E il tempo di un numero nove passa più lento di quello degli altri, perché più numerosi degli anni che se ne vanno sono i gol, che nessuno ti porterà via.
Ecco perché su di uno come te non basta scrivere un articolo: a uno come te si scrive una lettera.
Le storie più belle, tra quelle venute da lontano, dentro questa maglia iniziano tutte in salita: quando arrivasti ti precedevano il nome, la maglia bianca della tua Germania che non moriva mai, la verde casacca di Brema e quel gol che rese la vita più difficile a Maradona e Valdano, sotto il sole della finale messicana. Poi a Roma si fa presto, a lamentarsi, per troppo amore e nessuna pazienza. Si disse e ancor più si scrisse di tutto, a proposito della tua gamba più corta, del tuo particolare modo di correre, di un infortunio dal quale forse eri guarito troppo in fretta. Di quell’autunno del 1987 si ricorda soprattutto quanto e come ti dannassi l’anima per rincorrere i gol che ci erano stati garantiti e che ancora non arrivavano, che non riuscivi a darci.
Difficile stabilire se dispiacessero più a te che a noi, quelle reti soltanto sfiorate; di certo capimmo abbastanza presto e prima che i numeri cominciassero a darti ragione, che straordinario trascinatore fossi, per i compagni e per il pubblico; quanto nitido fosse il tuo impegno, prima che cominciassi a raccogliere anche da noi i frutti di una classe che il mondo aveva già conosciuto; quanto già fossi romanista, infine, magari senza ancora saperlo, senza averlo previsto. Al termine di quel Roma – Cesena, seconda di campionato, in cui mettesti a segno la tua prima rete italiana, andasti a salutare la Sud non per riscuotere quello che sarebbe stato un meritato tributo, ma quasi scusandoti, a braccia larghe, per i gol falliti in precedenza.
Sugli almanacchi, di quel tuo primo anno italiano resta un pugno, soltanto un pugno di gol – in campionato saranno tre – così poco numerosi da far gridare al fallimento, all’abbaglio circa l’acquisto di un centravanti giustamente celebrato ma tradito dalle cifre, nel corso della stagione. Ciò che non finì sulle statistiche lo avevano però sotto gli occhi i tifosi ogni domenica, vale a dire il tuo svariare su tutto il fronte dell’attacco, la tua intelligenza tattica e il modo, pregiato e caparbio al tempo stesso, di difendere il pallone per far salire la squadra, portando fuori posizione più d’un difensore, facendo saltare il banco delle marcature altrui. Un grande attaccante si misura anche dal modo in cui si mette al servizio di tutta la fase offensiva, non soltanto dal numero delle segnature.
Ti mancarono i gol, non le prestazioni, in quel tuo primo anno di Serie A costellato da qualche fastidio fisico che ti limitò le presenze. Ma era soltanto questione di attesa e con te il pubblico della Roma, privilegio toccato solo ai grandissimi, seppe aspettare, riconoscendo la filigrana della classe in mezzo alla carta straccia delle prime difficoltà: il tatticismo esasperato del campionato italiano offriva meno spazi al dispiegamento della tua corsa, alla tua progressione, al modo in cui a volte lanciavi te stesso negli spazi. Per la tua carriera precedente avevano parlato i numeri, ma l’impatto con i difensori italiani era, all’epoca, il vero giudice, quello che dava o sottraeva autorevolezza a tutte le reti che un attaccante aveva messo a segno a latitudini differenti.
Cominciarono ad arrivare, i gol, moltiplicando anche quelli degli altri, dal tuo secondo anno italiano; in una Roma sofferta e sofferente, se così si può dire, nell’anno in cui la guida tecnica di Nils Liedholm venne intervallata da quella di Luciano Spinosi; in una Roma tutta cuore, quando il Flaminio soffiava entusiasmo scandendo il nome di Gigi Radice; in una Roma solo leggermente più ambiziosa, poi, diretta dal serafico, imperturbabile e apparentemente anaffettivo Ottavio Bianchi. Tutti questi tecnici, differenti per convinzioni e caratteri, hanno però avuto in comune la consapevolezza di avere in te uno dei rari fuoriclasse in gruppi di giocatori dalla competitività e dal pregio tecnico tutto sommato limitati, non bastevoli a giustificare le rituali ambizioni di ogni inizio di stagione. Nei gol che segnavi e suggerivi, nella classe e nelle geometrie del Principe Giuseppe Giannini e in seguito nelle doti straordinarie di un difensore come Aldair la Roma dei tuoi anni trovò l’innalzamento del suo livello tecnico medio: la fase finale della presidenza di Dino Viola fece in tempo, tra ostacoli e difficoltà crescenti, a regalare alla storia del club fuoriclasse da raccontare a chi non ha fatto in tempo a vederli.
Fuoriclasse come te, che in cinque stagioni ci hai mostrato un repertorio variegato e sorprendente per la miscela di forza fisica e pregio tecnico, legati grazie alla caparbietà con cui sembravi rincorrere persino te stesso, fino a ogni fischio finale. Ci hai fatto esultare per ogni tipo di gol: di testa con stacchi perentori o inserimenti improvvisi in controtempo; in progressione dopo un dribbling secco al limite dell’area; con pallonetti morbidissimi, accarezzando il pallone in un fazzoletto di pochi centimetri disponibili.
Qualcuno di quei gol si è cristallizzato nei nostri ricordi, ce lo siamo raccontato e ce lo racconteremo, comune patrimonio nella bacheca delle emozioni più belle. Due, in particolare, non possiamo non raccontarteli: raccontarli proprio a te che li segnasti, per come noi li abbiamo vissuti; perché ebbe un sapore ancora più dolce, quel derby del 18 marzo del 1990, quando dopo mezzora esatta da una percussione di Giannini sul lato sinistro germogliò un cross, effettuato col piede sinistro, che risultò troppo alto per Rizzitelli e, arcuato a rientrare, ti raggiunse nel cuore dell’area. Non fu un colpo di testa, il tuo: fu l’interruzione di un digiuno, il destino che ritrovava il suo corso alle spalle di Nando Orsi, sotto un’esultanza di rara intensità, che scosse il Flaminio come se avesse un’impalcatura di stecchini.
Quello zero a uno non conobbe più nulla di biancoceleste, regalasti lo stadio intero alla sua sponda giallorossa. Ancora più roboante fu lo sconquasso con cui svegliasti l’Olimpico dal torpore di una delusione che aveva ormai preso corpo: c’era già chi stava abbottonando il giubbetto per andarsene, in quella serata umida del 24 aprile 1991, perché quell’uno a uno non lo lavava via la pioggia sottile e quella maledetta autorete di Nela stava regalando la finale ai danesi del Brøendby. A poco meno di tre minuti dal fischio finale, il lancio da destra di Pellegrini trovò la testa di Berthold, una serie di rimpalli e poi la botta di Desideri dal limite: c’era Schmeichel in porta, per loro, che respinse senza trattenere, con la palla che rimase lì…Era la porta sotto la Nord; dalla Sud si capì poco, si vide soltanto l’angolino che si gonfiava e un muro di gente dai mattoncini improvvisamente animati, frenetici. Ti buttasti su quella palla come fosse l’ultima della vita, anticipando ogni cosa che si muovesse nei pressi. Non si potrà mai dimenticare, chi ti ha fatto esultare così. Non si potrà mai dimenticare, in assoluto, un uomo come te, Campione del mondo che faticava come un gregario, attaccante che apriva il varco e poi ci si lanciava.
Avresti meritato di vincere anche a Roma, come hai vinto ovunque sia stato, però non c’è alloro più duraturo della riconoscenza della gente che hai reso felice.
Alla Roma sei anche tornato, molto tempo dopo, per allenarla, ti fu impossibile governare il caos: quella era una squadra troppo sbagliata, per un uomo giusto come te.