PENSIERI E PAROLE di Paolo MARCACCI
Così no. Così non si può. A maggior ragione perché l’abbiamo già visto, più di una volta: il 7-1 ormai è una sorta di coccarda nella maledetta numerologia romanista. Però in quelle occasioni c’era di fronte gente come Paul Scholes e Arjen Robben, per dire; non c’erano Simeoncini e Choliti da rivitalizzare (riguardatevi la dinamica delle ultime segnature).
Però, al di là della perdita assoluta della faccia e dell’onore, stavolta tendenzialmente irreversibile per quanto riguarda la stagione in corso, ci voleva un’impresa titanica, ieri sera, per vivere un dopopartita che fosse addirittura peggio della partita stessa. Ebbene, la Roma, intesa come sfere tecnica e dirigenziale, è riuscita anche in questo: con il poco che è stato detto; con il troppo che sarebbe stato doveroso dire e che ci si aspettava che venisse detto che incredibilmente non abbiamo ascoltato. O credibilmente, con disincanto ormai istituzionale.
In un certo senso, l’unica cosa davvero significativa, quantomeno perché si presta a un secondo livello di lettura, l’ha detta frettolosamente James Pallotta, da un oceano di distanza: – Chiedete a Monchi –
A prima vista è solo un frettoloso scarico di responsabilità (che peraltro sarebbe irragionevole, trattandosi del presidente); contestualizzando il virgolettato è invece una diretta chiamata in causa del lavoro di Monchi, che oltre a costruire una rosa strutturalmente squilibrata si è anche legato a doppio filo al destino di un tecnico che domenica sera potrebbe faticare a trovare posto in panchina, per la sua probabile ultima serata alla guida tecnica della Roma: più di uno spettro, più di un ipotetico profilo di suo eventuale successore è come se vi si fosse già accomodato. A cominciare da Paulo Sousa, ci piaccia o no.
Ecco perché ieri sera andava fatto qualcosa di risolutivo, per restituire almeno parzialmente dignità a un popolo tifoso che aveva appena vissuto un dolore. Attenzione: per chi conosce i tifosi della Roma sarebbe sbagliato precisare che si tratta di un dolore sportivo. È un dolore e basta. Un’assunzione di responsabilità avrebbe almeno aiutato a elaborare il lutto.
Perché con questo andazzo, ormai incancrenitosi, ci sta venendo a mancare anche il proverbiale oppio dei popoli, in tema di tifo: poter almeno pensare che, come scrive Nick Hornby in “Febbre a 90’ “, ci sarà sempre un’altra stagione sulla quale sperare. Ecco, se le logiche e gli atteggiamenti continueranno a essere questi, chi vuol bene alla Roma rinuncerà anche a svolte future: l’unica frustrazione peggiore di quella che segue ai sogni non realizzati è quella che si verifica quando si rinuncia al sogno stesso.
A Mister Di Francesco, con tutta l’appartenenza romanista sbandierata a ogni occasione, vogliamo dire solo un paio di cose: chi tiene davvero alla Roma dopo un pomeriggio come quello di Firenze si dimette, per amor proprio e del club. Sempre ricordandogli che di aziendalismo, ove quest’ultimo diventi eccessivo e acritico, una squadra tecnicamente muore e alla fine è sempre l’allenatore a essere sacrificato sul patibolo dell’opinione pubblica. Inoltre, avremmo evitato di parlare improvvidamente di sassolini solo per aver battuto Sassuolo e Parma prima di Natale. Si ricordi sempre che i tifosi giallorossi ormai, quanto a sassolini, ne hanno accumulati talmente tanti che fanno fatica a trovare la scarpa.