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Volevo essere Tancredi

ROMAPATICO di Franco Bovaio – Quando Tancredi esordì con la Roma il 28 gennaio 1979 avevo 11 anni, frequentavo l’Olimpico da giovanissimo abbonato insieme al mio povero papà da due stagioni (in pratica da quando Anzalone ci aveva regalato Pruzzo) e sognavo di fare il portiere perché ero innamorato di Paolo Conti. Un portiere forte, tanto da essere il dodicesimo alle spalle di Zoff nei Mondiali di Argentina ’78, al quale ne succedette uno fortissimo. Tancredi, appunto, che si chiamava come me, che era riccio come me, che spesso indossava la maglietta grigia come facevo io nella mia piccola squadra di quartiere, dove l’abbinamento tra noi venne spontaneo a chi mi allenava e ai miei amici, che a dire il vero lo facevano più per prendermi in giro che per caricarmi, come invece faceva il mister dei portieri. Sia come sia io, bimbetto con tante speranze, più vedevo Tancredi giocare e affermarsi tra i pali della mia Roma, più sognavo di diventare come lui. Non come un attaccante che fa i gol, come accade a tutti i bambini, ma come un portiere, l’unico che per il ruolo che ricopre gioca a pallone per evitarli, cioè contro la finalità stessa del gioco.

Poi, ovviamente, non è stato così ed è stato meglio per il calcio, perché con Tancredi, in comune, avevo solo il nome, i ricci e il numero di maglia. Ma poi ho avuto la fortuna di raccontarlo il calcio in più di trent’anni di carriera, in tanti articoli e libri, tra i quali uno, fatto per e con gli amici dell’Associazione Lupa Giallorossa del grande Alessandro Conforti, dedicato al quarantennale di quella Coppa Italia dell’80 che vide la definitiva affermazione di Tancredi nella finale che vincemmo contro il Torino all’Olimpico grazie alle sue strepitose parate ai calci di rigore. E non vi dico quanta emozione provai quando, sul palco dell’Auditorium della Banca d’Italia, dove presentammo il libro, tra gli altri protagonisti di allora salì proprio lui, Franco Tancredi, il mio mito, di fronte al quale non mi inchinai solo per pudicizia, anche se lo avrei fatto molto volentieri.

Prima di intervistarlo gli raccontai questa storia davanti a tutti, lui mi fece un sorriso e mi diede un buffetto sulla guancia con una di quelle sue mani che quarant’anni prima mi avevano fatto sognare e in quel momento, ve lo confesso, non ho desiderato altro dalla vita.
Da Franco a Franco, auguri per i tuoi settant’anni, di vero cuore e scusami se per celebrarli ho preferito scrivere più cose mie, personali, che della tua carriera, della quale d’altronde si sa tutto, tanto è stata strepitosa. Ma mi è sembrato più giusto così per provare a spiegare ai ragazzi che non ti hanno visto giocare perché, per noi che c’eravamo, sei e resterai per sempre il portiere più forte della storia della Roma.

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