RASSEGNA STAMPATOP

TOTTI “Rivivrei la giornata successiva alla partita dello scudetto”

Dopo le anticipazioni di ieri, questa mattina su Sette, inserto del Corriere della Sera, è uscito l’intervista a Francesco Totti a firma di Veltroni. Queste alcune risposte:.

Hai avuto il Covid in maniera seria, come l’hai vissuto?
È stato abbastanza aggressivo, con me. Ho avuto una polmonite bilaterale, febbre a quaranta, tosse continua ed ero stanco, non avevo fame. Sono stati ventiquattro giorni molto duri. Avevo la saturazione a 89-90 e in quell’occasione ci sarebbe voluto il ricovero, però ho rifiutato. Avevo paura, per quello che era successo a mio padre due mesi prima. E allora ho cercato di stare il più possibile a casa ed andare avanti a cortisone, antibiotici, eparina. Con i farmaci sono riuscito ad uscirne, ma è stata veramente dura.

Come passavi le tue giornate?
Sul letto, da solo, in balia del tempo. Non guardavo niente, non avevo voglia, non reagivo, tossivo minuto dopo minuto. È stato un incubo durato quasi un mese.

Hai avuto paura?
Dopo dieci giorni di punture, antibiotici, cortisone, vedevo che non c’era miglioramento. Sì, allora ho temuto. (…)

Quanto ti manca tuo padre?
Tanto, troppo. Penso che ogni figlio coltivi il timore della perdita del padre. È una figura molto importante, dà sicurezza. Insegna e rassicura, guida e accompagna. Ora lo misuro da padre, nel rapporto con Cristian, specialmente, ma anche con le bambine. Un padre si sa che c’è, comunque. Se è un buon padre. E il mio lo era, eccome. Anche non vedendolo, anche non sentendolo, però sapevo che lui c’era e questo era importante, ero certo che il suo sentimento per me stava sempre lì, in lui. Sapevo che c’era sempre quella figura che in qualsiasi momento poteva aiutarti, soccorrerti, consigliarti, sempre rendersi utile. Invece adesso sento un grande vuoto, mi sento catapultato in prima fila, con le spalle meno coperte».

Lui, taciturno, con te che rapporto aveva? Anche con il tuo lavoro, con il calcio?
Uguale. È sempre stato taciturno, da quando ho iniziato sui campetti al giorno dell’addio, dall’inizio alla fine. Come ho detto non esternava mai, ma io vedevo con lo sguardo l’amore che provava per me. Però in alcuni momenti non me l’ha dimostrato e io ho fatto lo stesso con lui perché poi, alla fine, siamo due persone con un carattere abbastanza forte. Abbiamo entrambi sbagliato a non esternare il nostro amore, il nostro modo di essere, non abbiamo fatto vedere a noi stessi e agli altri il bene di un padre verso il figlio e del figlio verso il padre. Io vedo tante persone, tanti bambini o ragazzi che abbracciano il papà, lo baciano, riescono a manifestare i loro sentimenti, a fare dell’affettività non solo un sentimento che si prova dentro di sé ma anche un gesto, un calore. Io anche se lo volevo, lo sognavo, lo desideravo in verità, per orgoglio o timidezza, lo facevo poco. Quello è stato il mio rammarico principale. L’ho scritto anche nella piccola lettera che gli ho indirizzato quando è venuto a mancare: “Scusa per tutte le volte che non ho capito, per tutte le volte che non ti ho detto ti voglio bene, scusa per gli abbracci mancati, per le parole non dette, per gli sbagli che ho fatto, ma soprattutto grazie perché sei stato un padre e non smetterai mai di esserlo”. Adesso, quando i miei figli lo fanno con me mi sento l’uomo più felice del mondo. E comunque so, perché ci sono passato, che se anche non lo fanno, vorrebbero, come lo desideravo io” (…)

Torniamo un attimo al giorno dell’addio. Allora ti immaginavi che saresti stato come sei oggi?
No, sinceramente. Pensavo di aver fatto un percorso straordinario, una carriera incredibile. Però immaginavo che quel giorno sarebbe stato l’apice, poi l’attenzione e la passione della gente sarebbe andata scemando. Di solito non dico che le persone dimentichino ciò che hanno fatto determinati giocatori, però è naturale che il tempo consumi e ingiallisca un po’ tutto. Invece con me succede il contrario, non riesco a capirne la motivazione. Forse perché adesso mi guardano con un altro occhio: prima ero il capitano della Roma, potevo essere antagonista, ero amato, ero odiato. Invece adesso mi fanno sentire come una leggenda di tutti e ovunque vada, in Italia o in Europa, mi gratificano di un amore sincero, come non avrei mai pensato succedesse. Neanche quel giorno, tra le lacrime dell’Olimpico.

Rivedi quelle immagini ogni tanto?
Purtroppo sì, perché spesso vengono rimandate in onda su Sky o altrove. Dico sempre a me stesso che prima della lettura della lettera devo smettere, cambiare canale e invece poi non ci riesco. È più forte di me, è una cosa mia, un film della mia vita e del mio amore per il calcio, per la Roma, per Roma e non posso voltare pagina. Così finisce che lo guardo per intero e – non so se dovrei provare vergogna – ogni volta mi commuovo.

Guardando la serie televisiva hai scoperto qualcosa di te stesso che non sapevi?
Nel documentario ero io che raccontavo, per me era più facile identificarmi. E comunque mi sono riconosciuto. Come anche nella serie, che era più difficile perché è finzione, invenzione e io non ero più l’io reale ma un attore che doveva fare quello che facevo io. Un meccanismo che mi ha fatto capire alcune alcune cose del mio carattere, del mio modo di fare che solo l’occhio degli altri ti può mostrare con sincerità e schiettezza. (…)

C’è qualcosa che vorresti dire a Spalletti dopo il conflitto e dopo tutto questo tempo?
No, per me è stata chiusa nel momento in cui lui è andato via e io ho smesso di giocare. Per me lì c’è stata la chiusura definitiva. È inutile dire che ci sarebbero altre cose da sottolineare o da fare. Non servirebbe a niente, ormai è successo. Ha sbagliato lui, ho sbagliato io, ha sbagliato la società, non so chi ha sbagliato. Ormai è successo, è passato. Mettiamolo nel dimenticatoio, giriamo pagina.

Quanto ti dispiace non essere più dentro la Roma?
Tantissimo. Tantissimo perché per me era non dico la seconda casa ma quasi la prima. Sono cresciuto là e morirò lì dentro. Per me era impensabile un giorno cambiare strada e andare via da Trigoria. Ma stavo con le spalle al muro, non potevo sottrarmi, dovevo prendere questa decisione. Drastica, brutta, però ho dovuto farlo per rispetto a me stesso. E ai tifosi.

Cosa ti piacerebbe fare in questa nuova Roma, quella di Friedkin?
Sinceramente non ci ho mai pensato e non ci sto pensando. Adesso ho intrapreso questo nuovo lavoro, il management dei giovani talenti, e quando parto con una nuova avventura, cerco di portarla a termine. Ora lasciare alcune persone per strada e ritornare nella Roma mi sembrerebbe scorretto nei confronti di questi ragazzi. Poi tra due, tre, cinque, dieci anni, chissà. Nella vita mai dire mai. Quando ci sarà l’occasione di incontrarsi con loro ne parleremo con serenità, con tranquillità.

Fino adesso non ti hanno chiamato?
No, fino adesso non c’è stato alcun contatto. (…)

Qual è l’errore più grande della tua vita?
In un percorso di quasi trent’anni di di errori se ne fanno tanti. Diciamo il calcio a Balotelli e lo sputo a Poulsen. Quelle sono state le cose più brutte che potessi fare, cose non da me. Tuttora non riesco a capire come possa aver compiuto gesti simili. Forse lo può capire o spiegare solamente chi è stato in campo. È un’altra dimensione, una condizione in cui si possono vivere anche stati d’animo e comportamenti che non ti appartengono. (…)

Quando hai smesso era il momento giusto o sei stato costretto dalle circostanze?
Sapevo che prima o poi avrei dovuto smettere. Bisogna essere realisti. A quaranta anni è pure difficile arrivare e continuare a giocare al livello giusto. Però nel mio caso sono stato costretto. Neanche costretto, come se avessero voluto mettere un punto, tirare una riga e cancellare. Senza parlarmene, senza rendermi partecipe. Una soluzione si poteva trovare, insieme. Avrei voluto smettere in un altro momento. Avrei voluto essere io a prendere la decisione, perché quando arrivi a quell’età è anche giusto smettere. Però in quel momento stavo bene fisicamente, stavo bene di testa, non pretendevo niente perché io non ho mai preteso niente da nessuno, non volevo giocare a tutti i costi. No, facevo parte del gruppo e se ogni tanto si riteneva opportuno che io potessi scendere in campo sarei stato o pronto, come sono sempre stato. Ma girarmi le spalle e non darmi la possibilità di far vedere che ancora potevo dire la mia mi è dispiaciuto, molto.

Tre nomi: Mazzone, De Rossi, Cassano. Mazzone com’era?
Mazzone per me è stato un secondo padre perché mi ha cresciuto e l’ho incontrato nel momento più complicato che un giovane possa trovare in una crescita calcistica e umana. Lui mi ha insegnato valori, comportamenti, ha fatto emergere i miei talenti. Mi ha gestito a trecentosessanta gradi.

Daniele?
Daniele, gran giocatore, è stato un fratello, è sempre stato mio tifoso. Quando giocavo lui faceva il raccattapalle e, come ha detto lui, sono sempre stato un suo idolo. Siamo cresciuti quasi insieme. Mi dispiace che abbia fatto il capitano per così poco tempo. Gli ho fatto un po’ da tappo, ma non è stata colpa mia.

E quel genio sregolato di Cassano?
Cassano è stato il giocatore con il quale mi sono divertito più di tutti, abbiamo fatto delle cose impensabili, da circo. Però per me lui si è espresso al trenta, quaranta per cento delle sue potenzialità. Diciamo che si è messo accanto alcune volte delle persone che non gli hanno fatto del bene. Spesso ha sbagliato i modi e i tempi di certe scelte. Gliel’ho sempre detto: se lui mi avesse ascoltato un po’ di più, avrebbe fatto la mia stessa trafila, cioè sarebbe rimasto a Roma per vent’anni, di sicuro. A Roma la gente era innamorata di lui. Cavolate o non cavolate, carattere non carattere, lui in campo era quello che era. Un fenomeno.

Se tu potessi domani mattina rivivere una giornata della tua vita, quale sceglieresti?
Rivivrei la giornata successiva alla partita dello scudetto. Per quello di incredibile che è successo a Roma. Non tutta la giornata, solo la sera dopo il fischio finale e tutto quello che è venuto dopo. (…)

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