Addio alle opere per la città. E ora la Roma rischia di pagare
(IL TEMPO) Il mesto epilogo del progetto Stadio della Roma di Tor di Valle – la As Roma ha annunciato nel tardo pomeriggio di venerdì la rinuncia al progetto ritenuto ormai insostenibile – avrà enormi ripercussioni sulla città e sulla società sportiva.
DOVE IL NUOVO STADIO? La prima domanda dei tifosi è: dove si farà lo Stadio? E quando? L’idea dei Friedkin è quella di volere solo lo Stadio. Niente «distretto dell’intrattenimento» com’era la versione Pallotta. E quindi di provare a identificare col Comune – il senso dell’incontro delle prossima settimana con la Raggi è tutto qui – aree su cui lavorare che siano all’interno del Piano regolatore. E che siano già il più attrezzate possibile per le infrastrutture di mobilità. Insomma, la Roma non vuole svenarsi per costruire ponti, ristrutturare stazioni, acquistare treni. E, se possibile, vuole evitare la questione «variante urbanistica». Il che significa, nell’ottica della società, dimezzare i tempi: niente voto in Consiglio comunale sulla variante, niente cubature aggiuntive, niente investimenti sulle infrastrutture se non quelli minimi. Il problema è che aree simili non è che ce ne siano a mazzi: sicuramente non lo sono né Tor Vergata né Tor di Valle. Girano le voci sull’area degli ex mercati generali al Gazometro e sull’ex SDO di Pietralata/Tiburtina. Ma è tutto molto lontano.
Di sicuro c’è solo che fra le aree non c’è il Flaminio: i Friedkin, dopo aver analizzato la situazione, l’hanno scartata per la palese impraticabilità dei troppi vincoli e troppe deroghe da ottenere. I Friedkin poi dovranno quasi certamente vedersela in tribunale con Luca Parnasi che, a quanto trapela, è intenzionato a chiedere conto alla Roma della marcia indietro. Non è da escludersi che anche l’immobiliarista ceco Radovan Vitek, in trattativa con Parnasi per l’acquisto delle aree e del progetto, possa unirsi alla causa contro la società giallorossa.
ROMA, CITTÀ IN DECOMPOSIZIONE C’è poi tutta la ripercussione su Roma. La credibilità internazionale della Capitale non è mai stata così bassa: qui non si può investire. La città è in decomposizione, preda di veti incrociati e di una burocrazia comunale ridotta ad una melassa vischiosa che l’hanno uccisa. Il Sole 24 Ore pochi giorni fa ha certificato come nel 2020, anno di piena pandemia, a Roma si sono registrati investimenti stranieri per 900 milioni. A Milano sono 3 miliardi e 900 milioni. A dimostrazione della vita di Milano e della morte di Roma. Poi ci sono le ripercussioni pratiche: svanisce un progetto che valeva 800 milioni circa e che avrebbe creato da 12 a 15 mila posti di lavoro.
Di questi 800 milioni, poco più di 80 era il valore delle infrastrutture di interesse pubblico che la Roma avrebbe pagato. Fra queste opere, le principali erano la messa in sicurezza idraulica del Fosso del Valeriano e dell’Acqua Acetosa; l’unificazione della via del Mare con la via Ostiense da Marconi al Raccordo; la nuova stazione di Tor di Valle sulla ferrovia Roma-Lido. Tutte opere attese da un trentennio e che rimarranno ancora nel cassetto. Beffa ulteriore: ora sarà il Comune a dover pagare con i soldi dei romani cose che prima avrebbe pagato la Roma. 9 milioni dovranno essere destinati a finanziare i binari ad Acilia e il potenziamento della rete di alimentazione della Roma-Lido di Ostia. Poi ci sono i costi per la viabilità accessoria del Ponte dei Congressi che la Roma avrebbe «coperto» con i 24 milioni circa destinati a unificare il tracciato della via del Mare/Ostiense e che ora invece dovrà pagare il Campidoglio.