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A proposito di Roberto Pruzzo…

“Nei secoli fedele”: cosi intitolava una intervista fatta a ‘O’Rey de Crocefieschi” Pruzzo per la nostra rivista da Luca Calamai nel marzo dell’87.  Purtroppo in questi giorni il Bomber è finito sulla cronaca per delle frasi dette riguardo il giocatore della Lazio Lulic. Ognuno è libero di pensare quello che vuole ma non ce la sentiamo di dare addosso al bomber del secondo scudetto per via di frasi fuori luogo sicuramente, ma da li a mettere in discussione la sua fede non ce la sentiamo. E’ stato lui stesso ad ammettere il suo errore e a scusarsi con i tifosi per averli feriti. Sicuramente si può discutere l’opinionista Pruzzo, ma non il giocatore: 10 anni, 314 presenze, 138 gol, 1 scudetto, 4 coppe italia, 3 titoli di capocannoniere e tanti tanti ricordi (la corsa sotto la sud contro l’Atalanta, l’elevazione nel gol a Genova, la cinquina all’Avellino solo per citarne alcuni).

Per ricordare al meglio chi è il Bomber del secondo scudetto giallorosso ci fa piacere rileggere il pezzo del Prof. Paolo Marcacci uscito sulla nostra rivista (Numero 338 – Febbraio 2015). Buona Lettura…


HALL OF FAME: ROBERTO PRUZZO

Dalla collina di Crocefieschi il mare di Genova non si riesce a vedere: apri la finestra e ti trovi circondato dai monti, come difensori che ti accerchiano al momento del calcio d’angolo. Abbassi lo sguardo e cogli l’incrocio delle valli, come vie di fuga verso un orizzonte più ampio, come spiragli per sfuggire alle marcature. Però Genova è nell’aria, impregnata di salsedine, ogni volta che il vento suggerisce uno dei suoi brontolii: che sia l’eco delle onde irrequiete o delle bestemmie dei camalli che scaricano al porto. E allora, se sei di Crocefieschi, finisce che quei brontolii te li porti dentro, che ti ci abitui, come al boato dopo il goal. Se sei di Crocefieschi e ti chiami …

Dalla collina di Crocefieschi il mare di Genova non si riesce a vedere: apri la finestra e ti trovi circondato dai monti, come difensori che ti accerchiano al momento del calcio d’angolo. Abbassi lo sguardo e cogli l’incrocio delle valli, come vie di fuga verso un orizzonte più ampio, come spiragli per sfuggire alle marcature. Però Genova è nell’aria, impregnata di salsedine, ogni volta che il vento suggerisce uno dei suoi brontolii: che sia l’eco delle onde irrequiete o delle bestemmie dei camalli che scaricano al porto. E allora, se sei di Crocefieschi, finisce che quei brontolii te li porti dentro, che ti ci abitui, come al boato dopo il goal. Se sei di Crocefieschi e ti chiami Roberto Pruzzo.

Primo aprile del 1955, sotto il segno dell’Ariete: nel giorno deputato agli scherzi, viene alla luce uno dei più grandi attaccanti italiani del dopoguerra, che quasi per scherzo e senza crederci più di tanto dà avvio alla propria carriera di calciatore. Addirittura, dopo la trafila nelle giovanili del Genoa, il presidente rossoblu Fossati deve sudare le proverbiali sette camicie per convincerlo a firmare il contratto da professionista: – In realtà ho sempre giocato solo per divertimento e l’idea di firmare un contratto mi convinceva poco – racconta nel libro “Bomber, la storia di un numero nove normale (o quasi)”, la sua bella autobiografia, scritta assieme a Susanna Marcellini per le edizioni Ultra Sport.

Dell’ariete ha però soltanto i connotati astrologici: è si un centravanti fortissimo di testa, straordinario per la scelta di tempo e la forza che mette nello stacco, ma quella è soltanto una delle caratteristiche del suo repertorio; rispetto al prototipo del ruvido stoccatore d’area, Pruzzo nel corso della carriera metterà in evidenza piedi quasi da trequartista, che gli consentono una gamma straordinariamente variegata di segnature e gli danno la possibilità di fungere, quando serve, da supporto all’intera manovra offensiva. Un grande finalizzatore, certamente ma, all’occorrenza, anche una sponda di qualità.

Le ricostruzioni sommarie della sua carriera catalogano il periodo genoano come quello dell’esordio, o poco di più. In realtà Pruzzo con la maglia del Grifone disputa cinque stagioni, tre in A e due in B; vince la classifica cannonieri del campionato cadetto per la stagione ’75 – ’76 e, soprattutto, diviene uno degli attaccanti più prolifici della storia del club: ancora oggi il suo nome figura assieme a quello di Diego Milito, Tomás Skuhrávý e “Pato” Aguilera. Con indosso i colori rossoblu diviene per tutti ‘O Rey di Crocefieschi, soprannome altisonante, che rende bene l’idea di quanto si sia meritato l’affetto dei tifosi e le attenzioni dell’Italia calcistica.

Per la ragguardevole cifra di tre miliardi di Lire, più il temporaneo passaggio in rossoblu di un certo Bruno Conti, viene acquistato dalla Roma, dove diverrà “Bomber”.

Lui ancora non lo sa e la città stessa non può averne la percezione ma, per i colori giallorossi, il suo acquisto segna il confine tra due ben distinte epoche romaniste: è l’ultimo, oneroso atto della presidenza di Gaetano Anzalone; sta per cominciare l’epoca di Dino Viola. Il nuovo centravanti, baffuto e dallo sguardo inquieto, è il primo volto tra quelli che negli anni a seguire incarneranno una Roma finalmente rispettata, temuta e vincente. Alle sorti giallorosse, legherà il suo nome per dieci anni, fino all’estate del 1988, quando sceglierà di proseguire la carriera, per un altro anno ancora, con la maglia della Fiorentina.

Vincerà tre titoli di capocannoniere con la Roma: 1981, 1982, 1986. Metterà in bacheca quattro Coppe Italia e lo storico scudetto del 1983; la gratificazione dei numeri e della statistica ci porta inoltre a citare 138 goal complessivamente, di cui ben 106 in Serie A. Nessun dato numerico potrà però mai rendere l’idea della suggestione e dell’impatto emotivo che ancora oggi, al solo evocarli, suscitano i goal di Roberto Pruzzo nella memoria storica romanista, pietre miliari di un cammino che iniziò a diventare glorioso proprio quando la firma del brontolone genovese iniziò a tracciarne il sentiero.

In una lunga teoria di reti che scandiscono l’ascesa verso successi e ambiti che la Roma non aveva mai conosciuto in precedenza, c’è spazio anche per un goal che arriva sull’orlo del baratro, perché il 6 maggio del 1979, con l’Atalanta di Vavassori e Prandelli in vantaggio per due a uno, lo stadio Olimpico esplode in uno dei suoi boati più fragorosi, quando Pruzzo si avventa, nel cuore dell’area, su un passaggio rasoterra di De Nadai, con il tempismo della disperazione. Quel due a due sarà la pietra d’angolo su cui la squadra edificherà una soffertissima salvezza. Quattro anni dopo, un altro maggio, in un’altra città – proprio quella Genova dei natali e degli esordi – , quando parte la parabola arcuata di Agostino Di Bartolomei, Pruzzo è già in fase di decollo, perché agli appuntamenti col destino non si può che arrivare al momento giusto; è il colpo di testa che non vale soltanto il momentaneo vantaggio romanista: lascia una scia tricolore attesa da quarantadue anni.

Proprio sul terreno di Marassi, grazie a una sua rete, plana circondato dal tripudio il secondo scudetto della storia giallorossa. Ad aumentare, se possibile, la sua gioia, il fatto che il Genoa, avversario di giornata, grazie all’ uno a uno finale firmato da Giuliano Fiorini si guadagna la permanenza in Serie A. Un punto per laurearsi campione d’Italia, l’altro per vedere festeggiare i suoi vecchi tifosi assieme agli attuali, accorsi in massa dalla Capitale.

La Roma di Dino Viola, uscendo dalla “prigionia del sogno”, ha dunque capovolto la sua storia. E Pruzzo capovolge se stesso, quando occorre, come accade a Torino qualche mese dopo: è il 4 dicembre del 1983; la Roma, col tricolore sul petto, è in svantaggio di un goal contro la Juventus di Michel Platini. I bianconeri già contano i due punti di un due a uno che pare definitivo. Alla Roma resta la speranza di un’azione, una sola. Nela lancia lungo, a ridosso dell’area Bonetti serve di testa Chierico, che controlla con un palleggio elegante e mette in mezzo.

Pruzzo vede spiovere il pallone, sa che non avrà mai il tempo di controllare, girarsi e tentare di battere a rete: ha un cespuglio di maglie bianconere attorno. Può fare soltanto una cosa. La fa. La rovesciata è talmente bella che chi la vede, in campo e fuori, soltanto in un secondo momento capisce che è anche vera. Tacconi le vola appresso, nell’aria immobile come il respiro di chi stenta a credere, fratturandosi un dito. È il novantesimo minuto più bello di sempre. Qualche secondo dopo il fischio finale di Casarin, Galeazzi lo raggiunge sul terreno di gioco: ancora incredulo e col fiato corto, lui trova le parole solo per dedicare il goal a Carlo Ancelotti, che nel primo tempo aveva visto terminare la sua stagione a causa dell’ennesimo infortunio al ginocchio.

E potremmo raccontarne ancora di questi goal, come quello con cui riportò la Roma in parità nella finale di Coppa dei Campioni la sera del 30 maggio del 1984, di testa su cross di Conti; sera maledetta perché il suo nome non era più della partita, quando il solo scorgerlo nella lista dei rigoristi avrebbe rassicurato un intero popolo tifoso. Oppure come quelli che grandinarono addosso al povero Zaninelli, cinque in una sola partita, in quel Roma – Avellino del 16 febbraio 1986, quando si avviò a vincere il suo terzo titolo di capocannoniere. Ma preferiamo concludere raccontandovi il primo e l’ultimo della vita calcistica di un uomo che ha sempre mostrato se stesso per quello che è. Il primo, segnato con la maglia del Genoa il 3 ottobre 1976; l’ultimo, con quella della Fiorentina il 30 giugno 1989, nello spareggio per andare in Uefa. In tutti e due i casi, l’avversario è la Roma. Gli è entrata e uscita dal destino, oltre i confini di una carriera.

Quel giorno in cui gli tocca batterla con indosso la maglia viola, raccogliendo un cross di Roberto Baggio, è anche il giorno del saluto definitivo e lui nell’esultanza coinvolge i tifosi romanisti, che accantonano l’amarezza per la sconfitta e lo abbracciano in un tripudio di nostalgia. Un epilogo del genere non può che essere voluto dal dio del calcio in persona: se chiedessimo a Roberto Pruzzo se crede alla sua esistenza, risponderebbe certamente di no, con un mugugno disincantato. Invece esiste, lo dimostra il fatto che ci ha regalato uomini come lui, autentici e spigolosi come le figurine che avevano i baffi.

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