JUVENTUS-ROMA. A PRIMA VISTA… di Paolo MARCACCI
I tabù sono tali, e tali restano, a volte graniticamente, finché non si manifestano tutte le congiunzioni astrali (chiamiamole così) necessarie per sfatarli. Ci piace in questo senso ricordare, anche perché non parliamo di un passato remoto, che c’è stata un’epoca in cui sembrava impensabile anche la sola ipotesi di vincere a San Siro, sia contro il Milan che contro l’Inter. Poi imparammo, semplicemente, che si poteva fare.
Ma nemmeno queste considerazioni fanno giurisprudenza, ci mancherebbe, perché il calcio è quella fenice che ogni volta, e ogni volta in maniera non replicabile, rinasce dalle proprie ceneri ogni volta che qualcuno pensa di aver già visto tutto ciò che ancora deve verificarsi. Ecco, abbiamo la sensazione che nella testa di Paulo Fonseca ci sia esattamente questo tipo di scenario: una partita che sia e che si manifesti, nel suo svolgimento, fine a se stessa, senza condizionamenti da subire attraverso statistiche o impatti ambientali di sorta.
E sapete che c’è? Per venticinque minuti circa la Roma suggerisce proprio questo tipo di sensazioni: palleggio autorevole, Diawara in testa; possesso palla crescente; nessun timore reverenziale. Sembra, quindi, una serata figlia solo del presente.
Sembra.
Su un’impuntatura, in senso letterale, di Florenzi che perde la zolla di appoggio sull’out destro, germoglia un agevole, anzi confortevole vantaggio juventino. Confortevole, ribadiamo, con Florenzi che trotterella appresso a Ronaldo per poi osservare il colpo da biliardo del portoghese in orizzontale.
Delittuoso.
Poi grandina, con più di un giocatore della Roma che comincia ad apparire in difetto di lucidità: Cristante, per esempio, che gioca un paio di palloni sanguinosi appena un passo oltre la lunetta dell’area romanista.
Douglas Costa non solo domina in lungo e in largo, ma comincia a scherzare con gli avversari.
Bentancur il secondo, quasi da calcetto, godendo prima dell’ingresso in area di una porzione di campo di dieci metri quadri sgombra dai tacchetti avversari. Non è una battuta.
Prima della fine del tempo, di cui son cartine di tornasole le facce di Kolarov e compagni, arriva il terzo di Bonucci.
Frustrazione, rischio tangibile di imbarcata, pensiero cupo a una frustrazione non smaltibile in tempo per la stracittadina.
Il secondo tempo ricomincia con un sussulto di dignità romanista e con il principio di una di quelle piccole zone d’ombra, nei ritmi e nel palleggio, in cui precipita ogni tanto la Juventus di Maurizio Sarri; ai bianconeri era accaduto anche all’Olimpico, in campionato.
Gol di Ünder, anche se tecnicamente di Buffon, che con la mano butta in porta la gran conclusione del turco che aveva battuto sotto la traversa. Perché non ci prova più spesso?
La Roma potrebbe, udite udite, colpire ancora, se Kalinic non divorasse la propria occasione in maniera incredibile; se non si tentasse di entrare in porta con la palla, per forza; se, forse, ci fosse un’altra tipologia di attaccante.
Nel frattempo si fa male Diawara, forse il migliore della Roma, facendo tra l’altro un gesto preoccupante per mimare il suo problema al ginocchio sinistro. Una ricaduta?
Nel frattempo, quando Rocchi fischia, contabilizzando le uscite di Florenzi, Kluivert e lo stesso Diawara. Dentro Santon, Veretout, Peres.
Che dire? Per l’ennesima volta c’è il rammarico di dover salutare troppo presto la competizione che, più di ogni altra, potrebbe portare segni di vita in bacheca.