“Io Totti, vi racconto Totti e la Roma”
IL TEMPO (Schito) – Francesco Totti si racconta. Questa volta in maniera inedita e totale. Svela storie che già hanno creato burrasca, come quella legata a Franco Baldini pubblicata su Il Tempo ieri. «Un capitano», scritto da Paolo Condò ed edito Rizzoli, e uscito nelle librerie ieri, nel giorno del compleanno dell’ex capitano giallorosso. Eccone alcuni stralci.
CAPELLO – Napoli. Trenta gradi la sera della vigilia, 9 giugno: più che sotto il vulcano, mi sembra di esserci finito dentro. Delirio di gente sul lungomare, dove c’è il nostro albergo, centinaia di persone nella hall, non proprio l’ideale per la preparazione della partita che vale lo Scudetto. Nell’hotel in cui alloggiamo si celebra un matrimonio, e questa è una piccola falla organizzativa perché la regola seguita da Capello fin dalla prima trasferta è di isolare la squadra in modo assoluto.
La premessa serve a introdurre un clamoroso equivoco sul quale a Roma si è ricamato per anni, anche perché Capello è rimasto a lungo convinto di avere ragione e non l’ha mai nascosto. Il tecnico quella sera è molto innervosito dalla concomitanza, e lo capisco perché al bar dell’hotel il contatto fra noi giocatori e gli invitati alla cena di nozze, trai quali alcune belle ragazze, e inevitabile. Il metodo di Capello prevedeva fin dalla stagione precedente due guardie private al piano in cui dormiva la squadra, e nessuno si è mai azzardato a tentare improbabili sotterfugi. Per quanto poi mi riguarda, all’epoca ero single: se fosse successo qualcosa, 17 anni dopo non avrei problemi a dirlo, ormai è scattata la prescrizione. Ma la verità è che non successe niente.
Quella sera saliamo in camera più o meno tutti assieme abbiamo occupato l’intero ottavo piano – e prima di dormire prendiamo il fresco sui terrazzini affacciati su Castel dell’Ovo. Un posto meraviglioso. Io sono in camera con Alessandro Rinaldi, un ragazzo adorabile, romano come me, di Cinecittà. A un certo punto sento bussare alla porta. Apro, e trovo la faccia imbarazzata di Tempestilli, diventato team manager, che con gli occhi cerca di farmi capire qualcosa. Non faccio in tempo a chiedergli cosa stia succedendo che Capello gli sbuca da dietro ed entra in camera furente. «Dove sono? Dove sono le ragazze?» «Mister, ma che dice? Non c’è nessuna ragazza…» «Invece si, ne sono certo.»
La perquisizione non può essere lunga, perché la stanza avrà sì e no venti metri quadrati, ma è molto accurata: Capello apre l’armadio, controlla il vano della doccia, guarda persino sotto al letto. Niente, naturalmente. lo provo a scherzare dicendogli «l’unica è che si sono buttate di sotto», ma lui si arrabbia ancora di più. Esce convinto di essere stato ingannato, e ha ragione: solo non da me, bensì dall’autore della soffiata (e a distanza di tanti anni, mi piacerebbe sapere chi fu).
SPALLETTI – Alla Roma siamo sempre stati malati di carte, ma quell’anno in modo particolare: tornei di scopa e briscola, sfide, rivalità, insomma il classico menu dell’epoca in cui gli smartphone ancora non esistevano, e non tutti si presentavano in ritiro con un computer portatile. C’era rimasto in canna un finale di stagione a scopa, perché non tutta la “classifica” annuale era definita: così, a fine cena, propongo a chi ci sta di andare a dormire a Trigoria per saldare gli ultimi conti. La truppa accetta in modo quasi unanime: a mezzanotte siamo tutti in camera mia, e comincia il torneo.
La situazione generale, molto rilassata, ci fa dimenticare l’orologio: così, quando qualcuno bussa alla porta, in molti si accorgono improvvisamente che sono le 5 e mezza, impallidiscono e cercano in qualche modo di nascondersi. «Chi è?» «Non fare il furbino, Francesco.» Apro lentamente la porta, trovo Spalletti con l’indice puntato sull’orologio. «Ma avete visto che ore sono?» «Mister, domani vinciamo lo stesso, ci penso io.» Ma Spalletti non si lascia intortare. Mi sposta delicatamente con una mano ed entra, vede subito che dietro al letto ci sono Aquilani, Okaka e Rosi che – beccati – escono dal nascondiglio con lo sguardo basso, e intuisce dalle risate soffocate che gli altri si sono rifugiati nel bagno.
Alla fine ci conta, e siamo in dodici. Io riprovo ad addolcirlo, garantendogli la Scarpa d’oro, ma lui non si toglie dalla faccia quell’espressione a metà fra il sorpreso e il disgustato. Il giorno dopo – meglio sarebbe dire il giorno stesso – battiamo il Messina 4-3 al termine di una partita leggera e divertente: io sbaglio il mio quinto rigore stagionale – è in assoluto l’anno in cui ne ho mancati di più ma segno ugualmente le due reti che, portandomi a quota 26, mi fanno vincere la classifica cannonieri di serie A e la Scarpa d’oro di miglior realizzatore europeo. Tutto è bene quel che finisce bene? Quasi. L’episodio della partita a scopa non si conclude li, so che Spalletti ne parla a Rosella sollecitando qualche cessione punitiva. Forse la sua fobia per le carte, che avrà una parte nelle polemiche legate al mio ritiro, nasce così proprio lì.
CACCIATO DA TRIGORIA – Il 20 febbraio, vigilia della gara interna col Palermo, ho un appuntamento fissato da tempo con Donatella Scarnatì della Rai per un’intervista sui dieci anni del titolo mondiale. Registriamo all’ora di pranzo, alla presenza di un addetto stampa che autorizza Donatella a pormi anche qualche domanda sul mio momento alla Roma; nello stesso istante – ma questo lo saprò soltanto dopo – Spalletti sta dicendo in conferenza che la sera dopo, per la prima volta da quando è tornato, partirò titolare.
E’ un’intervista nella quale dico che mi sarei aspettato da lui un trattamento diverso: soprattutto avrei voluto sentirmi dire in faccia certe cose che ho letto sui giornali. Niente di più. Non chiedo di giocare, non lo critico anzi, riconosco il suo valore per la Roma di oggi e per quella che verrà. Chiedo più rispetto e chiarezza alla società, questo sì, perché a fine stagione mi scade il contratto e io ho ancora voglia di giocare. La domenica mattina a colazione mangio da solo, in un angolo lontano dal tavolo di Spalletti e dello staff, al quale è seduto anche Vito. È lui a venirmi a chiamare: «Ti vuole parlare dell’intervista».
Andiamo in sala riunioni. Il tecnico ha in mano la rassegna stampa. La agita come se fosse un randello. «Che cosa devo fare io, adesso?» Se lo chiede tre volte, in tono sempre più spazientito. «Mister, ma ha sentito l’intervista? Guardi che Vito l’ha registrata…» «Non me ne frega niente dell’intervista, conta quello che c’è scritto qui, sui giornali.» «Guardi che io di lei ho parlato soltanto bene, è alla società che ho chiesto più rispetto.» «Basta, inutile proseguire, tanto non capisci. Hai sbagliato, e adesso vai a casa.»
E la punizione più umiliante. Cacciato da Trigoria. lo. Cacciato da casa mia. Tremo dalla rabbia. Dopo un lungo silenzio, affido le parole più taglienti che mi vengono in quel momento. «Molto bene, accetto la sua punizione. Vedremo se sarò io o sarà lei a pagarne le conseguenze.» «Mi stai per caso minacciando?» «Lei sa che a Roma la gente è dalla mia parte. lo ho soltanto parlato bene di lei, eppure mi vuole cacciare. Si assuma le sue responsabilità.» «Tu ormai sei come gli altri, dimenticati di quando eri insostituibile.» «Vigliacco, adesso che non ti servo più mi rompi il cazzo, eh? Sei tornato qui con una missione, portala a termine.»
SPALLETTI II – La corsa al secondo posto ci porta a Bergamo, e alla vigilia intuisco del movimento: negli hotel delle trasferte Spalletti finisce invariabilmente per occupare una stanza adiacente alla mia, tanto che una volta gli chiedo proprio se sia un caso, e lui di rimando mi dice: «Voglio controllarti meglio».
Il suo rovello è il solito, il gioco delle carte, che secondo lui toglie energie e concentrazione. Da quando è tornato, conoscendo la sua fobia (e memori del primo discorso), abbiamo smesso. Veramente. Ciascuno si porta dietro un pc o un tablet. Sabato sera a Bergamo io, Mire e Radja siamo riuniti in camera mia – sullo schermo c’è il Texas Burraco – quando, attorno alle 23.30, Spalletti in tuta nera arriva di soppiatto davanti alla mia porta e si siede e terra subito fuori, la schiena appoggiata alla parete, praticamente invisibile perché il corridoio e poco illuminato.
Per sorprenderci non ha fatto i conti con la stanza della fisioterapia. Poco prima di mezzanotte ne esce De Rossi, che la sera prima delle partite ha spesso bisogno di un massaggio per dormire. Nella semioscurità non crede ai suoi occhi. «Mister, è lei? Ma che sta facendo?» Spalletti risponde a bassa voce «Niente, niente, tanto so che adesso avviserai i tuoi amici…». Daniele fa lo gnorri, «ma che avvisare, mi faccio gli affari miei», torna in camera e manda subito un whatsapp a Pjanic «Occhio che avete il mister in agguato fuori dalla porta».
Sono le 0.15, un quarto d’ora dopo l’orario limite: nulla di particolarmente grave, ma Radja e Mire valutano ugualmente l’idea di scappare dalla finestra lasciandosi cadere giù. Siamo al secondo piano, però. È troppo alto. Non sappiamo cosa fare, se non ridere cercando di soffocare il rumore, perché la situazione è oggettivamente comica ma farci sentire non sarebbe una mossa astuta. Alla fine socchiudo la porta di quel tanto che basta per vedere le gambe distese di Spalletti. Radja esce fingendo di inciamparvi, «Oddio chi è? Mister, ma che diavolo…», Pjanic lo segue e io chiudo la porta alle loro spalle. In tempo per sentire la voce sarcastica di Spalletti: «Non fate i furbini, io lo so cosa facevate nella camera di Francesco, giocavate a carte», e Mire subito: «Quali carte? No, eravamo al computer!», «Facciamo i conti domani» è l’ultima, minacciosa frase che mi arriva.
Il mattino dopo, a colazione, non ci saluta. Nella riunione prepartita, in cui viene comunicata una formazione che non prevede Pjanic [la punizione è evidente), Spalletti ribadisce che il gioco delle carte è vietato e che qualcuno, la notte scorsa, si è fatto beffe di questo divieto. Non ho più la forza di replicare. La partita è pazza. Andiamo avanti 2-0 con Dignc (: Nainggolan, ma D’Alessandro e una doppietta di Borriello rovesciano la situazione: 3-2 per l’Atalanta, Spalletti si gira verso di noi Mire ed io siamo seduti vicini – e dice «Mo’ sono cazzi vostri, in conferenza stampa racconto tutto». A dieci minuti dalla fine mi butta dentro al posto di Daniele, e in breve trovo il gol del 3-3 con un bel tiro dal limite, e due minuti dopo manca poco che Dzeko sfrutti un mio assist per chiudere con un fantasmagorico 4-3. Espulso per proteste a un minuto dalla fine, Spalletti ci aspetta sull’uscio dello spogliatoio, Visibilmente su di giri.
Quando anche l’ultimo di noi è entrato si chiude la porta alle spalle, sbattendola, e comincia a urlare. Il mio armadietto è il più lontano dall’ingresso. Non mi accorgo dell’improvviso silenzio. Quando rialzo la testa trovo la faccia di Spalletti a un centimetro dalla mia. Mi aspettava. «Basta, hai rotto le palle, pretendi ancora di comandare e invece te ne dovresti andare, giochi a carte malgrado i miei divieti, hai chiuso.» Il tutto gridato a massimo volume. È l’ultimo litigio tra me e Spalletti, nel senso che perdo le staffe anch’io e ci devono separare in quattro perché altrimenti ce le daremmo di santa ragione.
Di lì in poi, chiuso. Recuperata la calma va in sala stampa a dire che anche se ho segnato io il merito della rimonta è del- la squadra – e va benissimo, ma tutti notano il desiderio di sminuirmi – e io esco dallo spogliatoio avvisando i dirigenti che «Adesso parlo», e subito mi si crea attorno un cordone sanitario. Rinuncio alle polemiche, perché come sempre penso che alla Roma farebbero del male, e il giorno dopo, su richiesta dello staff che lo vede ancora alterato, vado da Spalletti con Radja e Mire per scusarmi. Non per aver giocato a carte – continua a ripeterlo come un disco rotto – ma per aver fatto tardi il sabato.
LA LAZIO E NESTA – A Roma vive anche una grande nemica: la Lazio. E tutta la vita che l’affronto, dal primo derby a 12 anni fino all’ultimo della carriera, la sconfitta dell’aprile 2017, quando giocai senza incidere i venti minuti finali. Da bambino i sentimenti non sono schermati, ciò che provi ti brucia sulla pelle, e io odiavo la Lazio al punto da attaccare sull’album Panini le figurine dei suoi giocatori a testa in giù. Rovesciati, non li volevo nemmeno vedere in faccia.
Però questo non mi ha mai impedito di riconoscere i giusti meriti, e la bravura degli avversari. Sandro Nesta, in particolare, è stato il più bel difensore che abbia mai visto. Esistono le foto del nostro primo confronto in un derby, a Fiumicino, 1-0 per noi. Campo impossibile e spogliatoi tre volte peggiori, allagati sotto il tetto in eternit, una pioggia infame e a fine gara la sensazione di essere il ragazzo più inzaccherato del pianeta. In quel panorama di fango e sporcizia ricordo Sandro come un principe, pulito, elegante, mai un fallo brutto, non ne aveva bisogno.
Sono stato molto odiato dai tifosi della Lazio, com’è normale che sia, ma la situazione si è particolarmente inacidita quando Sandro è passato al Milan. Li ho avvertito proprio l’ondata di ritorno di una pesante frustrazione, perché in base a una grammatica sentimentale Nesta ed io ci saremmo dovuti stringere la mano al centro del campo prima di ogni derby sino a fine carriera. Sino a consunzione fisica di due simboli così nobili. Ma mentre Sensi, a prezzo di indubbi sacrifici, e sempre riuscito a trattenermi, Cragnotti a un certo punto ha ceduto. Sandro andò via molto malvolentieri. Per la Lazio fu una mutilazione, e allargherei il rimpianto alla città intera: godersi per anni e anni un derby con due capitani romani, fortissimi e leali sarebbe stato un privilegio.