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ROMA-LIVERPOOL SOTTOPASSAGGIO. UN GIORNO LO FAREMO…

di Paolo MARCACCI – Ognuno sta solo, sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera. Sembra che non arrivi mai, la sera di un tifoso, eppure è sempre troppo presto, quando un fischio d’inizio sgretola ipotesi e supposizioni, perché una punteggiatura di tacchetti si sovrappone alla verginità dell’erba, che dura finché ha senso ogni pronostico.

Non ha bisogno di regali il Liverpool di Klopp, serpente a sonagli vestito di bianco, la cui partita comincia a esistere quando Nainggolan tradisce la propria ortografia tecnica spalancando a Mané il corridoio verso il salone, quello che nonna terrebbe sotto chiave persino la domenica, quello che Alisson si trova troppo solo a proteggere dal cinismo degli ospiti. Eppure non finisce lì la Roma, che continua come se ciò che doveva fare prima dovesse fare anche ora, senza meditare su quante lacrime abbiano già annacquato il latte rovesciato sul tabellino della gara. Perché il pareggio sarà pure rocambolesco, ma è strameritato per l’intensità che gli uomini di Di Francesco profondono per onorare, quantomeno, uno stadio memorabile. Dopo l’autogol di Milner ogni disattenzione, per minima che sia, dovrebbe essere innaturale, più che evitata. Se c’è uno che non merita di sporcare una traiettoria questo è Dzeko, se non altro per come ha accompagnato la Roma fino a questo tratto del proprio cammino europeo. Wijnaldum coglie un frutto troppo dolce, per quelli che sono i suoi meriti effettivi sulla prosecuzione della traiettoria, ma il posizionamento lo rende lucido nel marasma dell’area, il resto è fremito roboante da settore ospiti.
Chissà che Roma rinasce nell’intervallo.
È nelle intenzioni e nei dribbling nitidi di Schick a metà campo, è nella firma di Dzeko che raccoglie la palla davanti a Karius e riporta il mordente delle ambizioni al centro dell’Olimpico; per questo arriva Ünder al posto di Pellegrini; per questo lo stadio sente un profumo nuovo.
Perché a vent’anni è tutto ancora intero, e mezz’ora abbondante è come avere vent’anni, quando tutto è possibile semplicemente perché può ancora succedere. E in un aggancio di Ünder davanti a Karius sembra che possa germogliare il primo dei fiori che mancano.
Lembi di pelle proibiti in area inglese? Forse.
Di certo Karius si trova davanti tanta Roma, ma ne serve tanta di più affinché il tempo ci basti. E servono i guanti di Alisson, come fossero gol all’arma bianca.
Poi 20′ di Gonalons per disegni più nitidi, al posto di De Rossi, in mezzo al campo.
Spara subito alto, il francese, ricordando che tirare si deve, comunque, contro il biondo vestito di verde.
Tocca poi a Mirko Antonucci, assaggiare la Champions al posto di El Shaarawy, uno di quelli che ha portato fin qua la Roma, indipendentemente da quanto l’abbia aiutata stasera.
Balugina frustrazione quando Florenzi, di conseguenza ammonito, stende Mané. Ma è viva d’orgoglio, la gara, anche se il Liverpool non va in affanno da un po’.
Bella volée di Dzeko, a incrociare, al minuto 78. A volte sembra una vita, a volte titoli di coda. Ancora il bosniaco davanti a Karius, ancora il soldo che manca per fare la lira.
Poi Klopp richiama Mané e mette dentro Klavan, mentre non può essere un Robertson qualsiasi a insegnarci come fare i coatti; glielo rammenta Manolas e i cartellini di Skomina sono due, all’unisono.
Tre a due, di rabbia più che di forza, con Nainggolan che invece di esultare sembra maledire tutto ciò che è accaduto prima.
Solanke – subito ammonito – per Firmino, nel Liverpool.
3′ di recupero: il Liverpool sta per passare all’incasso; i suoi tifosi cantano; l’orgoglio romanista brilla. Klopp perde altro tempo, con Clyne per Arnold.
Quasi crudele, il rigore: quattro a due, Nainggolan, nel momento in cui la clessidra manda in finale i Reds.
Ricordatevela, questa serata: perché ci ha detto che si poteva fare di più e che, ancora più semplicemente, si poteva fare.
Vuol dire che un giorno lo faremo.

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