EDICOLA. MONCHI: “Il calcio e la Roma: il mio pazzo mondo”
IL MESSAGGERO (A. Angeloni – M. Caputi – U. rani – S. Carina) – Si definisce matto. Matto come maniaco. Cioè maniaco nel lavoro. Puntiglioso, esigente. «Sono ambizioso, mi piacciono i fatti non le parole. La gente è stufa delle parole». Monchi racconta la sua esperienza romana, con un italiano molto sofisticato. A un anno dal suo arrivo, è cambiato lui ed è cambiata la Roma. Errori ne sono stati commessi, la splendida avventura in Champions sembrerebbe dire il contrario. «Costruisci una squadra forte e non vinci, poi ne fai una più debole e arrivi fino in fondo. Nel calcio è così». Parla di calciatori e di contesti, come se esistesse un luogo naturale che aiuti un atleta a crescere. «Un giocatore è una persona, con i suoi problemi, le sue esigenze, la sua vita. Funziona da una parte, non funziona da un’altra. Eppure è sempre lo stesso giocatore. Io a Siviglia ho lavorato in un certo modo, qui devo comportarmi in maniera diversa. E’ un concetto che ho capito dopo qualche tempo. Ma ora sono calato nell’ambiente».
La Roma costruita da lei è incompleta.
«Se penso di aver fatto una squadra perfetta, sbaglio; ma sbaglia pure chi sostiene che sia incompleta. Ci sono tante cose che cambiano in una stagione. Alcune anche difficili da gestire. Penso che una rosa limitata non arrivi in semifinale di Champions e non lotti per il terzo posto. Detto questo, penso che tutto sia migliorabile. Parlavo col mio amico Emery, mi ha detto voi non vi rendete di cosa avete fatto realmente, riferendosi al dopo Barcellona. La squadra non è perfetta, ne sono convinto, ma ha tante virtù e per questo oggi siamo in un sogno».
Che direttore sportivo è lei?
«Il lavoro di un ds non è solo prendere o vendere un giocatore, ma si sviluppa giorno per giorno. È un lavoro difficile da giudicare. Dopo un anno qui conosco meglio la società, questo calcio e forse questo mi è mancato nel mio primo lavoro di programmazione. E’ la prima volta che esco dalla mia comfort zone dopo ventinove anni».
Come si pone nel suo lavoro?
«Ho smesso di giocare molto presto per un problema alla spalla e ho fatto un anno il team manager. Poi subito il ds in un momento difficile della società, a un passo dal fallimento. Entro nello spogliatoio, vedo tanti miei compagni e, non so se sbagliando, ho provato a essere un ds più di spogliatoio che di ufficio. Ha funzionato, ho continuato così: faccio colazione con i calciatori e con i magazzinieri, vado nel pullman con loro, sto nello spogliatoio, parlo con loro di politica o di amicizie. Il problema non è la qualità dei calciatori, ma la persona. Spesso manca la persona per un rendimento ottimo. Bisogna stare vicino ai calciatori. Una volta volevo prendere Bielsa. Lui mi ha detto che mi avrebbe fatto entrare nello spogliatoio ma non lo avrebbe gradito. Non l’ho più preso. Oggi però siamo ancora amici».
Vale anche per l’allenatore?
«E’ la persona più sola del calcio. Tutti siamo allenatori, tutti prendiamo le distanze dall’allenatore, però. Per questo credo che un ds deve stare molto vicino al suo tecnico. Il ds deve essere uno strumento per l’allenatore, con la scelte che fa va incontro a problemi. Per questo giorno per giorno è importante il ds: così capisco meglio quando arrivano i guai. Se risolvi i problemi prima che diventino grandi è meglio. Io sono un po’ matto, sono imbevuto di bilardismo. Bilardo era ossessionato dai piccoli dettagli. Io sono così. Penso che i grandi successi arrivino dai piccoli dettagli».
Quando sceglie un calciatore, guarda se sia anche la persona giusta?
«La risposta ideale sarebbe sì, ma direi una bugia. Prendo un giocatore in un contesto, ma quando arriva qui c’è un nuovo contesto. Non posso sapere cosa succede alla persona quando arriva. Io provo a capire il uso carattere. Ad esempio Paulsen, era perfetto, professionista al 100%».
A Totti questo non lo dica.
«No, altrimenti si arrabbierebbe (ride)»
E se prende un giocatore non idoneo?
«Ci sono circostanze che non puoi prevedere a volte, circostanze che colpiscono la persona. Non è un alibi, ma a volte la società non può gestirle. Accadono e basta. Avevo una squadra fortissima al Siviglia, che è arrivata nona e che in estate ha prodotto 200 milioni di cessioni. L’anno successivo, con una rosa meno forte, ha vinto l’Europa League».
Balotelli è un profilo che interessa?
«Questa è una domanda trabocchetto. Se tu hai bisogno di questo tipo di giocatore, lo puoi prendere. Edin e Balotelli sono il giorno e la notte. Se mi dici un vice Dzeko, in generale si cerca un giocatore con le caratteristiche simili. Il giudizio su Balotelli non si può fare solo sulla persona ma si deve riflettere sul suo livello tecnico, che è da giocatore importante. È un profilo che non scarto».
Quante partite vede a settimana?
«Dieci, quindici: vedo tante immagini, tanti video tagliati. Però per capire bene un giocatore va seguito tante volte e in tante circostanze diverse. Meglio dal vivo»
Come si spiega la Roma in semifinale ma così lontana dallo scudetto?
«Nel calcio purtroppo o fortunatamente 2+2 non sempre fa 4. È vero che mancano punti, ma ne mancano alcuni per cattivo rendimento e qualcuno per sfortuna. L’esperienza è la madre di tutta la scienza. Noi ora abbiamo accumulato una esperienza importante. Dovete pensare che c’è un nuovo allenatore e un nuovo ds. Io sono ambizioso, ma credo che se all’inizio della stagione mi avessero prefigurato questo momento Insomma, non possiamo restare con un pensiero negativo».
Ma cose da migliorare ci sono.
«È vero, non so se molto o poco ma qualcosa sì. Sappiamo dove abbiamo sbagliato e dove abbiamo fatto bene, ora possiamo pianificare la prossima stagione. Se restiamo fermi a riflettere solo sulla distanza dalla Juve non va bene, c’è sempre una semifinale di Champions conquistata. Quando abbiamo vinto la prima Europa League a Eindhoven con il Siviglia, abbiamo passato la notte in Olanda. Durante il volo per tornare ho detto al mio presidente ora dobbiamo lavorare eh! Non è difficile arrivare in cima, è difficile rimanervi.
Dove vuole portare la Roma?
«Più vicino al successo. Se arrivi tante volte vicino, vinci. Oggi lo siamo, passi indietro non ne possiamo fare. Una cosa è dire che qualcosa non è andata bene, una cosa però è dire che è tutto sbagliato».
Quanto c’è di Monchi in questa semifinale?
«Penso che nella vita poche cose sono coincidenze ma caricare il successo in semifinale sul ds mi sembra una follia».
Il suo Siviglia ha costruito i successi in Europa, mentre nella Liga è arrivato una sola volta tra le prime 4 negli ultimi 10 anni. E’ un caso?
«La filosofia del Siviglia era diversa da qui. Storicamente, quando giocavo lì , andavamo al nostro Circo Massimo per festeggiare la qualificazione in coppa. In 58 anni il Siviglia non aveva giocato una semifinale. Quando trovavamo la strada dell’Europa League, quando eravamo lì vicini alla vittoria, dimenticavamo tutto il resto. Al tifoso interessa la vittoria, s’è stancato delle parole».
Cosa pensa quando sente Sabatini dire che questa squadra la sente sua?
«Ma è vero. Questa squadra ha tanto lavoro di Walter. Io la parola mia non la uso, la Roma è dei tifosi. Se il Siviglia avesse vinto il successo sarebbe stato mio perché ne sono tifoso».
La Roma del futuro come la immagina?
«Bisogna prima di tutto sedersi e capire dove vogliamo arrivare. Anche Di Francesco ha cambiato modulo. Questo significa che proviamo a trovare la soluzione che ci alzi il livello di rendimento. Prima di tutto dobbiamo lavorare insieme senza dimenticare che sopra di noi c’è la società, che è l’unica cosa che resta. Non si prendono decisioni solo con le idee del ds e dell’allenatore, altrimenti dimentichiamo la cosa più importante, la sostenibilità della società. Oggi per fortuna non possiamo decidere qual è la rosa della prossima stagione, perché ci sono tante cose che possono cambiare. Siamo in diverse posizioni, dalla più negativa, eliminati dal Liverpool, o al terzo posto e campioni d’Europa. Cambia tutto. Prima di decidere dove vogliamo arrivare, dobbiamo capire l’idea del mister e la disponibilità della società a livello di capacità economica e di brand. Può sembrare una follia, ma il brand è decisivo».
Così tanto?
«Ho visto un cambio tra prima e dopo la gara col Barcellona nella risposta dei procuratori e dei giocatori».
Come nasce l’idea Di Francesco?
«Quando sono arrivato qui in Italia avevo già fatto delle scelte: pensavo che un ds straniero dovesse prendere un allenatore italiano. Quindi ne ho disegnato il profilo: uno che potesse conoscere la Roma, che avesse fame, che nel suo percorso i calciatori da lui allenati avessero fatto una crescita sportiva ed economica. Di Francesco incarnava questi principi. Ho fatto 3 appuntamenti con lui: dopo il primo ero già convinto. Un allenatore con me si ritrova a lavorare con un ds molto matto. Forse il miglior allenatore del mondo non potrebbe lavorare con me se non ci fosse sintonia. Per questo era importante capire la sinergia tra noi. C’è stata dal primo momento. Se non instauro un buon rapporto con l’allenatore, non si può lavorare bene. Io ho bisogno di capire che l’allenatore si fidi di me. Ora c’era bisogno di un allenatore così, un’altra volta magari servirà uno con caratteristiche diverse».
Interviene anche sulle questioni tattiche?
«Se mi viene chiesto, do un parere, altrimenti no».
Roma e il calcio italiano sono come li immaginava?
«Oggi credo di essere cresciuto come professionista, come persona e sono contento. È vero che ho avuto bisogno di tempo per capire che il tifoso della Roma è stanco di ascoltare parole, vuole fatti. A volte dobbiamo metterci nella testa dei tifosi e capire che sono stanchi, non vogliono che uno spagnolo arrivi e dice cosa diventerà la Roma. La gente è stanca di ascoltare. Oggi per fortuna sono felici perché abbiamo fatto qualcosa».
Cosa non è ancora riuscito a fare?
«Ho avuto dal primo giorno la libertà assoluta per fare quello che voglio. È vero che è mancata una cosa, il tempo mentale. Ho sbagliato a pensare che lo stesso Monchi di Siviglia potesse funzionare qui. Una volta che ho lavorato su questo mancava tempo. Ma è stato un mio problema. Qui ho autonomia totale, parlo tutti i giorni con Pallotta. Ho autonomia ma comunico su tutto. Credo sia giusto così. Se decido di vendere, vendo. La responsabilità deve essere sempre collegata all’autonomia».
Dzeko stava andando via a gennaio. Sarebbe stato un bel problema.
«Capisco che a volte il messaggio che può usare un ds potrebbe sembrare una bugia, perché è vero che non possiamo raccontare tutto tutto tutto. Ma io dico meno bugie possibili. In una conferenza io ho detto che noi, per via del FFP, dovevamo fare una plusvalenza. E che ero obbligato ad ascoltare tutte le offerte. È arrivata una offerta più o meno interessante per Edin. Per questo abbiamo fatto uno step in più, ma alla fine non si è trovato l’accordo perché l’accordo In dieci gironi di negoziazione ho visto Edin fuori dalla Roma, ma gli ultimi giorni non avevo dubbi sulla sua permanenza: nessuna delle tre parti era convinta dell’operazione».
Prenderebbe un giocatore spagnolo?
«Se posso, sì. Il calcio italiano è diventato un po’ più spagnolo e viceversa, quindi si sono avvicinati. Oggi il divario non è così lontano».
Che sensazioni le provoca il Liverpool?
«Non ho mai giocato ad Anfield, ma l’ultima finale che ho vinto col Siviglia è stata proprio contro i Reds. Per me sarà un debutto».
Rivedrà Salah.
«Non ho un grande rapporto con lui, è molto timido e siamo stati insieme poco tempo. Ma ci saluteremo carinamente».
Firmerebbe per arrivare quinto in campionato ma in finale?
«Se so che vinciamo la Champions sì. Per i tifosi è meglio arrivare in finale, ma per noi è più importante conquistare la qualificazione. Sono due cose differenti: la qualificazione in campionato porta soldi per la prossima stagione, quelli che entrano per il percorso in Champions vanno in questo bilancio».
In sintesi: lo scorso mercato la Roma ha pagato l’eliminazione nel preliminare 2016 contro il Porto.
«Sì».