AS ROMATOP

GERSON “Da quando ho messo piede qui, Nainggolan ha sempre cercato di aiutarmi”

Sono quasi due anni che Gerson è in Italia ma sotto molti aspetti resta un mistero. L’impressione è che non abbia ancora mostrato tutto del suo talento, e non è neanche chiaro in che ruolo giochi meglio. Non ha giocato abbastanza da chiarire se le aspettative con cui è arrivato alla Roma (strappato al Barcellona, pagato molto per un diciottenne) fossero realistiche o esagerate, ma ha giocato comunque alcune partite importanti senza sfigurare (tipo contro il Chelsea) e non ha ancora compiuto 21 anni.

Gerson è sposato, è padre di una bambina piccola e con il suo contratto sostiene il resto della sua famiglia. Cominciamo a parlare di questo, in una delle salette del Media Center di Trigoria, perché la pressione che deve vivere fuori dal campo è una delle poche cose di cui sono sicuro.

«Per me è una cosa normale. Da quando sono piccolo sono abituato ad assumermi le mie responsabilità: ho avuto una vita, quando ero più piccolo, fatta anche di sofferenze», dice. «Ho iniziato molto presto a lavorare per aiutare la mia famiglia. Poi, grazie al mio talento calcistico sono riuscito a cambiare la vita della mia famiglia. È una cosa che mi rende orgoglioso, così come sono orgoglioso di essere giovane e di avere già una mia famiglia – una moglie, una figlia. È vero che ci sono molte persone che dipendono da me, ma è una cosa che mi rende felice».

Ogni talento è un miracolo

Gerson quando parla guarda davanti a sé, leggermente al lato rispetto agli occhi del suo interlocutore, ma spesso controlla che il traduttore riporti fedelmente le sue parole. Sembra avere una risposta pronta per tutto, sembra cresciuto nel professionismo. È lontano dallo stereotipo del brasiliano affetto da saudade: «Non è né più né meno il tipo di nostalgia che avrebbe un italiano se andasse a vivere in Brasile. È normale avere un po’ di nostalgia di casa ma la vita è fatta di lavoro, soprattutto, e sono qui per cogliere questa opportunità». Anche se alla fine si permette una concessione sentimentale: «Forse mi manca un po’ mia madre, non viene qui spesso. Non le piace viaggiare».

È nato e cresciuto a Belford Roxo, una delle città che formano la galassia metropolitana di Rio de Janeiro, una delle più povere di tutto lo stato. Quando cerco su Google Maps qualche immagine per farmi un’idea, i risultati assomigliano tutti più o meno a questa foto.

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«Ho avuto un’infanzia difficile: in famiglia siamo in quattro, oltre a me ci sono altri tre fratelli, soltanto mio padre lavorava e qualche volta capitava che mancasse da mangiare. Quello che non mancava mai erano i fagioli», dice con ironia. «Ero triste della situazione perché volevo aiutare e non lo potevo fare».

Una storia simile a molte altre già sentite: «I miei amici dell’infanzia sono quasi tutti finiti nel giro della criminalità o in carcere, dove sono cresciuto io. E chissà io cosa avrei fatto [se non avessi fatto il calciatore, nda]». Ma Gerson dice anche qualcosa di meno comune, e cioè che non dipende tutto dall’ambiente: «Io ho sempre avuto la testa sulle spalle, non credo che avrei fatto quella fine, anche se a volte le circostanze della vita sono imprevedibili».

Fino ai 6-7 anni giocava in strada con gli amici, ma ancora non pensava davvero di voler diventare un calciatore: «Inizi a giocare che sei piccolo, insieme a tantissimi ragazzi, e non sai se riuscirai ad arrivare in fondo ad una strada che è piena di ostacoli, di difficoltà».

Ed è incredibile come le cose cambino da un momento all’altro. Gerson ricorda bene il giorno in cui tutto ha preso una piega diversa: «Eravamo in casa e c’era una bottiglia d’acqua sul tavolo… ad un certo punto è caduta, e io l’ho calciata al volo. Mio padre era lì con me e ha intravisto del talento. Da quel momento si è convinto che io sarei diventato un calciatore. Nessuno gli dava credito, lui è stato l’unico a crederci».

Il padre, Marcos Antonio da Silva detto Marcão, qualche anno fa ha raccontato a Globo Esporte di aver lasciato il lavoro per dedicarsi al talento del figlio e di essere arrivato a vendere ferro vecchio per permettergli di allenarsi. «Mio padre innanzitutto è stato il mio primo allenatore. Eravamo in una condizione economica difficile ma lui non si è perso d’animo, ha preso un patentino da allenatore facendo dei corsi pubblici con lo scopo di insegnarmi quello di cui avevo bisogno, quello che mi mancava calcisticamente».

Marcão, che non aveva mai giocato a calcio in vita sua, descrive il talento del figlio letteralmente come “un miracolo di Dio” anche se non si fa troppi problemi nel parlare della sua carriera come di una piccola azienda a conduzione familiare: il “progetto Gerson”.

«Mio padre è una delle persone che più ha creduto in me, in più di un’occasione si è privato di qualcosa per assecondare la mia carriera da calciatore», dice. «È vero che sono arrivato a Roma – in Europa, in un club gigante, in un bel paese – anche grazie al mio talento e alle mie forze. Ma sono consapevole che senza di lui non sarei qui oggi».

Tutto subito

L’ascesa di Gerson in Brasile ha davvero del miracoloso. Si parlava di lui già prima dell’esordio con la prima squadra della Fluminense. Aggregato alla prima squadra nell’estate del 2014, a ottobre viene inserito dal Guardian tra i migliori 40 giovani talenti del mondo.

A gennaio del 2015 esordisce con la maglia del Brasile nel Sudamericano U-20 (dove realizza 3 assist in 7 partite) e a fine torneo viene segnalato da Outside of the Bootcome uno dei migliori giocatori del torneo.

In quel periodo il suo nome inizia a circolare in relazione ai principali club del mondo, si parla soprattutto di Juventus e Barcellona. Il direttore sportivo della Fluminense dice che è «impossibile vendere Gerson per meno di 10 milioni di euro» e a febbraio, finalmente, esordisce nel campionato carioca. Appena sei mesi dopo viene acquistato dalla Roma per una cifra intorno ai 17 milioni di euro. Nel Brasilerao (la massima serie brasiliana) ha giocato una decina di partite.

«È stato tutto davvero fulmineo», mi dice Gerson. «È stato veloce, ma è stata anche la realizzazione di un sogno. Quando si è nel settore giovanile in Brasile si parla tra ragazzi e il sogno di tutti è quello di arrivare in Europa. Ma bisogna essere preparati anche mentalmente per fare questo salto». Quando gli chiedo se avrebbe voluto rimanere più tempo in Brasile per farsi le ossa risponde che «la vita è fatta di opportunità».

Per convincerlo a scegliere la Roma invece del Barcellona nel suo contratto è stata inserita una clausola che prevede un premio in denaro alla società blaugrana nel caso in cui dovesse vincere il Pallone d’Oro. L’allora direttore sportivo Walter Sabatini gli invia una maglia giallorossa con il suo nome e il numero 10 e il suo nome scritto sopra, lui si fa a una foto e in Italia si scatena un putiferio perché quel numero è ancora di Totti. «Era un regalo di cui ero felice, abbiamo fatto una foto: per me non c’era nient’altro. Poi c’è sempre qualcuno pronto a polemizzare, a interpretare le cose in maniera negativa. Però dal mio punto di vista e dal punto di vista delle persone che erano lì era un semplice regalo, una bella maglia».

Gerson dice di aver incorniciato quella maglia e di averla appesa in casa, anche se ha conosciuto il legittimo proprietario di quel numero. «Arrivato a Roma ho avuto subito la fortuna e il privilegio di allenarmi al fianco di Totti e di assistere in prima persona al suo addio al calcio. È un ricordo che conserverò per sempre. È stato incredibilmente emozionante».

Paradossalmente, però, il passaggio alla Roma rallenta la sua carriera. A sorpresa non viene chiamato per il Mondiale U-20 che si gioca quell’estate (e in cui il Brasile perderà solo in finale, ai tempi supplementari, contro la Serbia) per incomprensioni con il CT Alexandre Gallo, e il club giallorosso non può tesserarlo perché non ha più slot per giocatori extracomunitari. Gerson passa un’annata d’attesa in Brasile, dopo che anche la possibilità che venga girato in prestito ad una piccola squadra italiana (si parlava di Frosinone) sfuma nel gennaio del 2016.

Una storia che si ripete quasi identica l’anno successivo, dopo che già aveva esordito con la Roma, quando Gerson sembra ad un passo dal trasferirsi al Lille in prestito ma l’affare non va in porto all’ultimo secondo. «Il club all’inizio aveva la percezione che avevo anche io: cioè di non essere ancora pronto per il calcio italiano e il calcio europeo» dice. «E riteneva fosse una buona idea quella di cedermi in prestito per fare esperienza. Mi rendevo conto che mi mancava ancora qualcosa però volevo restare nel club, volevo imparare ciò che mi mancava qui. Su questo ho insistito molto, fino alla fine, perché sapevo che dovevo migliorare, ma non volevo lasciare il club».

Il momento più difficile

L’impatto con il calcio italiano non è stato dei più facili. Spalletti in estate spende per lui belle parole ma poi in campionato non lo fa giocare quasi mai. Gerson viene impiegato soprattutto nella fase a gironi dell’Europa League, con le riserve, da mediano davanti alla difesa, dove gioca alcune buone partite. Contro l’Austria Vienna, a metà ottobre, serve un grande assist per il gol di El Shaarawy, pescandolo oltre la linea dei difensori con un lancio morbidissimo.

Il 17 dicembre 2016 si gioca Juventus-Roma: i giallorossi sono a 4 punti dal primo posto e con una vittoria legittimerebbero definitivamente le loro pretese al titolo. Spalletti, contro ogni pronostico, lo mette in campo dal primo minuto, e da ala destra, per arginare la fisicità di Alex Sandro che gioca in quella zona, almeno secondo quanto dichiarerà a fine partita. L’esperimento, però, fallisce malamente: Gerson non sembra pronto a un contesto così competitivo e dopo un tempo viene richiamato in panchina. La Roma perde 1-0 e dopo la partita si parla soprattutto di lui. I più maliziosi dicono che Spalletti l’abbia mandato in campo per dimostrare l’inadeguatezza della rosa per competere a quei livelli, per mandare un messaggio alla società in vista del mercato di gennaio.

«Contro la Juventus effettivamente rimasi un po’ sorpreso [di essere schierato titolare, nda] perché era un periodo in cui non stavo giocando ed era una partita importantissima», ricorda lui. «In quella circostanza mancò un po’ di preparazione mentale da parte mia. A partire da quella partita, sono venuti fuori molti dubbi su quello che era il mio gioco». In quella stagione non scenderà più in campo.

Per Gerson il primo allenamento dopo quella partita è stato il momento più difficile vissuto in Italia: «Dopo quella partita con la Juventus sono stato massacrato. Poi si parlò di un possibile prestito al Lille… ci sono state un po’ di situazioni che mi hanno lasciato un po’ triste, abbattuto».

Adesso, però, sembra guardare a quel momento come un insegnamento: «La delusione è durata poco perché la vita va avanti velocemente e se ci si sofferma troppo a piangersi addosso, a farne questioni di ego, ti passa davanti e neanche te ne accorgi. Questa è una cosa che mio padre mi dice da quando sono piccolo: quando si attraversano momenti di difficoltà, il tuo ruolo è quello di restare sempre a testa alta, di guardare avanti senza autocommiserarsi».

Gli chiedo se se lo immaginava così, il suo arrivo in Europa. «Le cose non sono andate bene all’inizio. E la colpa non era né del club, né dell’allenatore… la colpa era mia, perché non ero pronto», risponde. «Un calciatore deve essere sempre pronto, non soltanto fisicamente ma anche mentalmente».

«Finita la stagione, sono tornato a casa e anche rivedendo amici e familiari sono entrato in un ordine di idee diverso, ho analizzato la situazione, ho capito dove ho sbagliato e sono tornato con la ferma volontà di fare meglio. Penso sia stato questo a dare la svolta della mia carriera in Europa. E credo che la morale sia di non dare la colpa agli altri, ma solo ed essenzialmente a se stessi».

Che giocatore pensa di essere

La mossa di Spalletti in quel Juventus-Roma ha avuto anche una profonda influenza tattica su come veniva percepito Gerson dal pubblico e dagli addetti ai lavori.

L’impressione è che anche Di Francesco, che ha voluto tenerlo a Roma e che lo fa giocare più costantemente in posizioni offensive (da ala destra), lo sfrutti più che altro per le sue caratteristiche difensive – magari per congelare i ritmi nei minuti finali di una partita in bilico o contro squadre fisiche, per mettere in campo il suo atletismo.

Il suo primo gol in Serie A, contro la Fiorentina, è arrivato a seguito di una palla recuperata nella trequarti avversaria, dall’applicazione diligente del pressing alto.

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Per uno che era arrivato in Italia con la nomea del giocatore creativo, l’ennesimo talento esotico, deve essere una sensazione straniante. «È qualcosa che sono stato obbligato ad imparare qui in Italia», dice Gerson. «Però mi ha fatto e mi sta facendo molto bene perché invece in Brasile c’è più un calcio di qualità, tecnico in cui non si bada troppo alla fase difensiva, alle marcature. Appena arrivato qui tutti mi hanno detto che era necessario imparare a marcare, ad aiutare la squadra».

Gerson in campo sembra sempre molto prudente, interessato più a tenere il pallone per non perderlo che per giocarlo. È lui stesso ad aver cambiato idea sul suo gioco o siamo noi ad averlo frainteso? «Una cosa che ho imparato qui in Italia è che spesso le cose più belle sono le più semplici», risponde. «A volte vuoi fare qualcosa di straordinario per impressionare gli altri e finisci per avvitarti su te stesso. Altre volte, invece, fai qualcosa di semplice e tutti restano colpiti dalla bellezza di quel gesto».

Il suo stile conservativo è evidente soprattutto nella difesa del pallone spalle alla porta, e nel portare il pallone per rallentare i ritmi: «Ci sono giocatori più propensi a giocare di prima o a due tocchi. A me, in certi momenti della gara, per assumermi delle responsabilità, piace tenere la palla».

Da Ronaldinho a Nainggolan

Gerson quest’anno è tra i giocatori della Roma con le migliori percentuali di passaggi riusciti (88%) ed ha anche delle buone statistiche difensive (2.08 duelli aerei vinti, 1.11 intercetti e 0.97 contrasti vinti ogni 90 minuti). In questo senso, forse, dovrebbe essere meno stupefacente la sua risposta alla domanda: “A quale giocatore ti ispiri oggi, chi è il tuo modello?”.

«Da quando ho messo piede qui, Nainggolan ha sempre cercato di aiutarmi, mi piace parlare con lui e davvero lo ammiro per come interpreta il calcio, per come va in campo. Ha una grinta, una forza e un carattere straordinario, a volte gioca anche in condizioni fisiche non perfette tanto è forte il suo desiderio di aiutare la squadra. Lo guardo e spero di potermi avvicinare a quel tipo di giocatore».

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È un cambiamento radicale nel pensare se stesso, se pensiamo che il suo idolo da bambino era Robinho, e che in qualche modo riempie il vuoto lasciato dalla sua elusività nel dibattito sul suo ruolo.

Quando gli chiedo cosa gli manca per diventare quel tipo di giocatore, la sua risposta nasconde una sorprendente dose di umiltà.
«Non devo migliorare un singolo aspetto – la velocità, la forza, il tiro – devo concentrarmi per migliorare tutte queste cose insieme». Dice che: «Tutti i calciatori devono avere nella propria testa la volontà di migliorare, di imparare qualcosa sempre. Questo vale per tutti, anche per Messi, Cristiano Ronaldo, Neymar, per i migliori giocatori del mondo: puoi fare sempre qualcosa per migliorarti. Questo vale ad ogni età: a 20 anni come a 40».

Gerson, anche in questo caso, è molto attento a presentarsi come un professionista maturo, collegando il miglioramento personale all’importanza del lavoro quotidiano:
«È importante fare una vita da professionista: andare a letto presto, venire al campo d’allenamento, allenarsi duramente, farlo tutti i giorni con questo stimolo, con questa mentalità di imparare. È soprattutto una questione mentale, la volontà di pensare che si può sempre migliorare».

Vamos a ser feliz

Nelle sue parole si avverte sempre un forte senso di grave responsabilità. Il peso del club che lo ha acquistato, forse, del suo costo, della clausola sul Pallone d’Oro? O magari i compagni di squadra, la famiglia? Viene da pensare, ed è un paradosso per l’idea che abbiamo dei calciatori brasiliani, che gli serva semplicemente un po’ di spensieratezza perché il suo talento sbocci definitivamente.

È interessante quello che dice riguardo Ronaldinho, con cui ha giocato alla Fluminense nel 2015 («Una delle cose più belle che mi è capitato nella vita»), e che mette nel suo pantheon calcistico insieme a Totti e Robinho. Dice di sentirlo spesso e di averci parlato la notte prima di sbarcare in Italia, nella primavera del 2016, dopo il ritorno temporaneo alla Fluminense: «Il consiglio che mi ha dato è quello di essere sempre concentrato, di lavorare sempre duro perché la strada sarebbe stata difficile, complicata. Ma anche che se uno si impegna, se lavora con impegno, allora Dio gli darà sempre una mano. Ancora oggi prima di scendere in campo mi piace ripetere, a mo’ di litania, tra me e me, una frase che diceva sempre Ronaldinho, che era: Vamos a ser feliz».

«Secondo me questa è una delle chiavi non soltanto nel calcio ma anche nella vita. Certo, si gioca per vincere dei titoli, per guadagnare del denaro… ma per me è importante anche andare in campo ed essere felici».

Quest’anno, sempre un po’ a sorpresa, Gerson ha esordito in Champions League contro il Chelsea, a Londra. Gli chiedo quanto è difficile affrontare questo tipo di partite senza aver giocato con continuità prima.
«Per un calciatore professionista tutte le partite diventano importanti, non soltanto quelle contro il Chelsea ma anche quelle con le piccole squadre. In questo senso, io cerco di allenarmi sempre bene perché non sai mai quando arriverà l’occasione di giocare, è una cosa che ripeto in ogni intervista. È necessario allenarsi sempre al meglio perché non sai mai quando l’allenatore riterrà che meriti un’occasione. E non devi lasciarti sfuggire l’occasione perché non sai mai quando ricapiterà».

Tra pochi giorni la Roma giocherà i quarti di finale di Champions League contro il Barcellona. Come ci si sente a pensare di poter giocare una partita del genere, contro una squadra del genere? Contro Messi?
«Giocare al Camp Nou è un sogno. Il Barcellona è una delle migliori squadre del mondo. Andiamo lì per giocarci le nostre possibilità, per cercare di qualificarci. Sappiamo che sarà una partita difficile, ma lo sarà anche per loro. Anche incontrare Messi è uno dei sogni che avevo. Ma ne ho molti altri ancora da realizzare».

LEGGI QUI L’ARTICOLO ORIGINALE DE ‘L’ULTIMO UOMO’

(fonte: ASROMA.COM)

 

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