DINO VIOLA. La storia siamo noi…
La Roma e il suo popolo ricordano oggi la scomparsa del presidente Dino Viola, ed in occasione del 27° anniversario dell’addio al patron artefice del secondo scudetto giallorosso, vogliamo ricordarlo utilizzando le parole del Prof. Paolo Marcacci…
LA ROMA 346 – Gennaio 2016
HALL OF FAME di Paolo MARCACCI…
“La storia siamo noi”: una canzone che non potevamo cantare.
I tifosi della Roma non potevano permetterselo e, per dirla tutta, non scorgevano neppure l’ombra di una tale ambizione, all’orizzonte. Perché era un cerchio che si dilatava all’infinito quando c’erano da profondere passione, attaccamento alla maglia e ai colori sociali, vicinanza fisica e ideale alla squadra; quando bisognava far ribollire lo stadio di passione ed entusiasmo, accontentandosi di quei sentimenti stessi e del piccolo “meglio” che si potesse fare e raggiungere. Quello stesso cerchio, però, si restringeva fino ad avere il diametro di un tappo di bottiglia, quando ci si trovava a interrogarsi sui “se” e sui “quando” sarebbe stato possibile che quella mole di passione e attaccamento, che nei momenti difficili si faceva ancora più intensa, potesse conoscere finalmente anche il coronamento della vittoria. Non una vittoria episodica, un alloro isolato che per mezzo di un’eccezione confermasse la regola di una Roma, anzi di una “Rometta” – vezzeggiativo insopportabile e per nulla consolatorio -, destinata a rientrare nei ranghi di quelli che non impensieriscono nessuno e che proprio per questo sono simpatici a tutti. No, prima di qualsiasi trionfo la Roma avrebbe dovuto conoscere una svolta, un’inversione di tendenza rispetto a quella che sembrava essere l’inerzia calcisticamente ineluttabile di un destino prestabilito. Perché era sempre stato come se, nella città di Dio per antonomasia, soltanto il dio del pallone non riuscisse a esercitare il suo potere di redimere una bacheca piena di spifferi, provocati dal troppo spazio a disposizione.
Prima di poter raccontare di farne parte, quindi, la storia bisogna saperla costruire. E prima ancora di costruirla bisogna forse imparare a riconoscerne il profumo. O il colore; magari due, che vedi sventolare da un autobus non casuale, perché è un autobus che porta a Testaccio. Come salire in corsa a bordo del proprio destino, prima di conoscerlo.
Il giallo e il rosso, all’improvviso, sullo sfondo della gioventù, a incorniciare il sorriso di Flora, bellissima e solare: l’amore di una vita nelle due forme più romantiche del sempre, dunque. La compagna dell’esistenza e la squadra di calcio, due modi diversi per far palpitare il cuore, due forme di abbraccio che Roma ha saputo spesso concedere a tutti quelli che ha trattato da figli e che figli, in origine, non erano.
Dino Viola, Adino per l’anagrafe, era nato ad Aulla, provincia di Massa e Carrara ma quasi per sbaglio, dove non si capisce se stia per finire la Toscana o se sia già cominciata la Liguria: colline della Lunigiana, territorio enigmatico come tutti quelli di confine, dove qualcos’altro è già cominciato, prima che si abbia il tempo di rendersene conto. Come è accaduto alla Roma e alla sua storia quando il destino del club giallorosso ha intersecato quello di questo dirigente dal profilo affilato e naturalmente aristocratico, dal sorriso tagliente che sapeva anche essere sprezzante, quando c’era da utilizzare il sarcasmo indispensabile nelle dure, estenuanti battaglie politiche e dirigenziali; dagli occhi che però si facevano dolci quando lo sguardo si rivolgeva al popolo dei tifosi romanisti, alla Curva Sud figlia prediletta anche quando aspro si faceva il dissenso. Anche come presidente è stato un uomo di confine, in effetti, perché tutti quelli che cambiano una storia, qualsiasi storia, lasciano l’eco di un prima e di un dopo, quando si pronuncia il loro nome.
Quel giorno di maggio del 1979, assieme alle lacrime del congedo di Gaetano Anzalone, cominciavano a scorrere giorni destinati a rimanere indelebili nella memoria di una tifoseria e di una città intera; anche dell’Italia tutta, paese calcisticamente abituato alla subordinazione nei confronti dei potentati economici del settentrione, e soprattutto ai colori, rigorosamente disposti a righe verticali, di un potere che tollerava la vittoria altrui soltanto in quanto innocua ed episodica, come un foruncolo da schiacciare di quando in quando.
Da quell’estemporanea, imprevista corsa a Testaccio, erano trascorsi anni, una guerra, un’ascesa imprenditoriale coraggiosa e senza soste, l’inizio di un’avventura dirigenziale che ora conosceva il coronamento della presidenza. Cominciava l’era di Dino Viola: nulla, alla Roma, sarebbe più stato uguale a com’era fino ad allora, fatta eccezione per i colori e per la passione della gente, quelle stesse due cose di cui lo studente di Aulla si era innamorato dopo averle incontrate per caso, in giro per la città. Toccava ora all’ingegner Viola dare seguito alla fascinazione vissuta dal giovane Dino, anche per ricambiare tutto quel popolo tifoso che lo aveva coinvolto in quel primo abbraccio.
In quella stessa, ultima primavera degli anni settanta, Nils Liedholm lasciava la panchina del Milan dopo aver conquistato coi rossoneri lo scudetto della stella. Il Barone aveva deciso di venire a Roma, memore di una promessa che Viola, nei panni di dirigente, aveva strappato al tecnico svedese. Prendeva vita uno dei binomi più efficaci e memorabili della storia del calcio italiano, una meravigliosa sintesi tecnico-dirigenziale che era miscela di saggezza, competenza, signorilità, decisionismo ben dosato e passione dissimulata dallo stile. E poi c’erano le parole, e il modo geniale di adoperarle: l’italiano reinventato dal Barone, perché mai appreso bene del tutto e proprio per questo divenuto leggendario, al quale faceva da contraltare lo stile secco e asciutto del Presidente. Sotto il velo dell’apparente leggerezza, dietro la maschera di un mezzo sorriso, le battute di Dino Viola pesavano come macigni: ironia scarna, volutamente enigmatica a tratti, tanto più metaforica quanto più voleva colpire il suo obiettivo polemico. In principio furono i centimetri, così la Juventus comprese che sulla scena del calcio italiano era comparso chi osava fissarla negli occhi senza avvertire l’istinto di abbassare lo sguardo.
Di fatto, la Roma aveva smesso di essere simpatica a tutti: il primo traguardo dell’Ingegnere, la testimonianza che Dino Viola aveva già infuso alla Roma, e i tifosi iniziavano a metabolizzarlo, il principale degli insegnamenti: bisogna avere considerazione di se stessi, per ottenere quella degli altri. Una mentalità nuova, misto di orgoglio e consapevolezza, che il presidente aveva portato in dote alla squadra e al pubblico che tanto tempo prima lo avevano preso per mano. Un orgoglio, una coscienza di sé, tanto più nitidi quanto più nera si faceva la notte: come quella del 30 maggio 1984, dopo il rigore di Kennedy, quando il Presidente chiamò idealmente a raccolta tutta la sua gente, spiegando a ogni tifoso che a piangere dovevano essere i deboli, perché i forti non piangono mai. La Roma, ormai, faceva parte dei forti: nessuno l’aveva invitata in quella élite, si era guadagnata da sola il diritto di entrarci, l’Italia e l’Europa avevano dovuto prenderne atto. L’Ingegnere ebbe la forza di rivendicarlo nella notte più nera del tifo romanista, quando a nessuno, comprensibilmente, poteva venire in mente di riflettere sul fatto che dal maggio 1979 al maggio 1984 erano trascorsi soltanto cinque anni, che erano bastati a raccontare le Coppe Italia, lo scudetto, la finale di Coppa dei Campioni. Dietro le quinte di quegli impensabili traguardi, la lotta estenuante contro il potere: il calcio italiano avrebbe dovuto erigere monumenti a un dirigente lucido e innovatore come Dino Viola; la cronaca di quegli anni racconta invece che non seppe mai meritarselo del tutto.
Se n’è andato un giorno il 19 gennaio del 1991, il Presidente, a causa di un nemico subdolo e fulmineo che lo ha portato via senza riuscire a sconfiggerlo: indomito, fino alla fine, anche contro la malattia. Stava facendo rinascere la sua Roma, per l’ennesima volta.
A salutarlo, il giorno del suo funerale, i suoi giocatori, mescolati ai suoi tifosi e alla gente di Roma che gli tributava affetto e gratitudine. Per tutti, unita al dolore, la consapevolezza di aver perso un padre.
Romano tra i romani, Dino Viola riposa al Verano, nella tomba che Flora volle edificare e dove lo raggiunse un giorno di novembre del 2009; sorridendogli, ci piace immaginare, come la prima volta.
I romanisti di domani, per ogni trofeo che avremo la ventura di alzare, dovranno voltarsi indietro a ringraziare lo studente di Aulla che un giorno prese l’autobus verso Testaccio, per aver insegnato ai loro nonni cosa sia l’autostima, quindi la consapevolezza, infine la vittoria.