Carlo VERDONE: 31 anni dopo…
di Alberto MANDOLESI.
…Quell’anno, il 1985, non era iniziato al meglio per i tifosi della Roma: il giovanissimo Sven Göran Eriksson, che aveva preso il posto di Liedholm, faticava ad adattarsi al campionato italiano, prima di Natale Paulo Roberto Falcão aveva disputato a Napoli la sua ultima partita con la maglia della Roma andando poi ad operarsi negli USA dal dottor Andrews, e di lì a poco, perdendo in casa contro il Bayern (la partita del “Que serà, serà”), avremmo preso consapevolezza che si stava chiudendo il sipario sul ciclo più emozionante della nostra storia. Anche nella nostra redazione avevamo bisogno di una scossa. Per questo Riccardo Viola mi chiese di contattare Carlo Verdone, quel giovane attore e regista che in pochi anni era diventato un beniamino assoluto grazie a film come “Un Sacco Bello”, “Bianco, Rosso e Verdone”, “Borotalco”, “Acqua e Sapone”, e “I Due Carabineri” (insieme a Montesano) che stava spopolando nelle sale. Così conobbi Verdone, e da quel giorno ebbi tante volte l’opportunità di apprezzare la sua serietà sul lavoro, l’affabilità nel rapportarsi con la gente, e il suo impegno nel sociale, grazie (e non solo) ai tanti Derby del Cuore cui ha partecipato nelle vesti di infallibile goleador. Qualche sera fa, incontrandolo alla festa di compleanno di un comune amico dove si sarebbe esibito come batterista in tutto il repertorio di Jimi Hendrix, gli ho domandato: «Perché non bissiamo un colloquio per LA ROMA, trentuno anni dopo?». La risposta è stata immediata: «Devo andare in Lussemburgo per girare la clip dell’ultimo album di Celentano e Mina. Torno domenica sera, lunedì ci mettiamo d’accordo». Per Verdone la parola è una, e così, esattamente 31 anni dopo, è scaturita questa intervista…
Confermi quanto affermato nel 1985, di essere diventato romanista per via di una collezione di figurine completata prima delle altre quando, alle elementari, andavi a scuola dalle suore di Nevers? «È tutto vero. Si diventa tifosi di una squadra quando vieni indottrinato da un amico, dal gruppo di una classe che tifa più per una squadra che per l’altra, quando ti entusiasma un giocatore o quando vai per la prima volta allo stadio. Il mio compagno di banco era romanista, disegnava molto bene, ritraendo le immagini di Giacomino Losi, Da Costa, Panetti e di tutti i giocatori della Roma di quel periodo. Così diventai tifoso della Roma».
Qual è la prima partita che hai visto?
«La prima partita di calcio che ho visto è stata Siena-Rimini. Mio padre era senese, e mi portò allo stadio. Finì uno pari, ma al pareggio del Rimini papà, che era una persona seria, pacata ed educata, esibì improvvisamente un’anima da coatto e cominciò a prendersi ad ombrellate con un tifoso romagnolo. Vedere mio padre in quella veste sconosciuta mi fece capire che il calcio poteva portare alla trasformazione dell’individuo. La prima partita della Roma, invece, fu un derby seguito dalla Curva Sud, in compagnia di un amico e di suo padre. Per la prima volta vidi i miei beniamini non più solamente disegnati dal mio compagno di banco, vidi le immagini a colori e non in bianco e nero come ce le regalava la televisione. Lo stadio mi sembrava immenso, e ricordo che prima dell’incontro venne un gruppo di laziali sotto la Sud, portando sulle spalle una bara con scritto “Qui giace la Roma”. Una cosa inconcepibile di questi tempi. La risposta si limitò a qualche lancio di pomodoro e qualche frutta, ma niente di più. Oggi è tutto cambiato, tutto è diventato più violento, e si è spenta la poesia di quegli anni. Ricordo ancora la mia emozione per l’immenso boato quando segnò la Roma.
Chi è stato il tuo primo idolo?
«In assoluto, il primo giocatore che colpì la mia immaginazione fu l’argentino Omar Sivori, capace di dribblare intere difese avversarie con quei calzettoni sempre abbassati. Nella Roma fu un altro argentino a conquistarmi: Pedro Waldemar Manfredini, che ancora oggi, con le sue nove triplette in giallorosso, detiene il primato in casa romanista».
Qual è l’episodio più curioso legato alla Roma?
«Nella stagione del nostro terzo scudetto, un giorno ricevetti a sorpresa una telefonata dell’allora presidente del Perugia, Luciano Gaucci: “Presidente, a cosa debbo questa chiamata?” – gli chiesi – “Mi sono fatto dare il tuo numero da Vittorio Cecchi Gori perché vorrei invitarti a vedere la partita del Perugia contro la Nostra Magica Roma” – rispose – “Lei quindi tifa per la Roma?” – incalzai – “Ma è ovvio!”. Così il giorno dell’incontro (3 dicembre 2000 – Perugia Roma 0-0 ndr) una macchina con tanto di autista venne a prendermi a casa. Allo stadio Curi, però, parcheggio e sala stampa erano dalla parte opposta della Tribuna dove avremmo dovuto prendere posto (sono situati dietro la bandierina tra quelle che noi chiameremmo Curva Nord e Tribuna Tevere ndr). Così chiamai Gaucci per esprimere le mie perplessità nel dovere attraversare il campo sotto la curva perugina. “Ma cosa dici! – replicò – Tu sei l’attore più amato d’Italia. Il pubblico sarà orgoglioso di vederti a Perugia!” “Presidente – obiettai – io nun so’ tanto convinto…” Appena messo piede in campo, sentii partire qualche applauso, ma la gran parte dei tifosi cominciò ad ululare, e improvvisamente partì una mitragliata di bottigliette d’acqua che mi costrinse ad una fuga verso la salvezza. Arrivato in tribuna, ancora col fiatone, protestai: “A preside’, m’hanno lapidato d’acqua minerale!” E lui: “Ma sono i soliti quattro o cinque…”. “Ma che quattro o cinque – lo interruppi – questi so’ 5000!” La partita terminò con un pareggio, e il giorno seguente Gaucci mi fece recapitare un bel servizio da tè, come ringraziamento. Da allora non l’ho più sentito».
Qual è il giocatore della Roma che hai avuto modo conoscere meglio?
«Sicuramente Francesco Totti. Anche se non ci vediamo spesso, è sempre emozione. Quando poi segna quei gol importanti, ho una via preferenziale: chiamo Vito Scala, e lui me lo passa al telefono. Francesco è un ragazzo d’oro. A parte lui, però, vorrei citare un calciatore che fino a pochi giorni fa non avevo mai avuto il piacere di incontrare. Era la sera di Roma- Palermo (23 ottobre 2016 ndr), ed ero stato invitato dall’A.S. Roma per presentare la cerimonia che avrebbe introdotto i nuovi membri della Hall of Fame. Terminata la celebrazione, il mio amico e tuo collega Gabriele Cosmelli venne a dirmi che c’era un giocatore che desiderava conoscermi. Era Francesco Rocca, ed io ho sempre vissuto nel Mito di Kawasaki. Vederlo fare quelle corse sfrenate dicendogli: “Ti ho stimato e ti stimerò per tutta la vita”. È stato bellissimo incontrarlo».
Quante volte, nei tuoi film, hai fatto riferimenti alla Roma?
«Poche volte, o meglio, una volta sola. È stato nel film “Il Gallo Cedrone”, quando il mio personaggio, Armando Feroci, viene ricoverato in stato di coma dopo mille vicissitudini, e dopo essere stato condannato a morte in Africa per aver fatto il bulletto con una ragazza. I suoi amici vengono a trovarlo, e per sollecitare la sua rianimazione, gli annunciano tutta la formazione della Roma del secondo scudetto».
Ti ha mai creato problemi manifestare la tua passione romanista?
«No, eccetto l’episodio di Perugia dovuto a quelle circostanze particolari, non ho mai avuto problemi perché sono un tifoso vecchio stile. Non mi piace offendere. Non mi metto a litigare col tifoso laziale né con quello juventino. Anzi, non ho mai fatto fatica a riconoscere il valore degli avversari quando l’hanno meritato».
Negli anni, sei diventato il testimonial preferito per i Grandi Eventi della Società. Perché pensi abbiano scelto te?
«Se questo è vero, la cosa mi fa piacere. Forse sarà dovuto a Roma, la mia città, oppure ai tanti anni di lavoro, o per l’amore che ho sempre dimostrato nei confronti della nostra squadra. E poi adesso c’è l’affetto di tanti giocatori, persino quelli attuali e quelli che non pensavano mi conoscessero, come Salah. Ricordo che una volta mi trovavo a Ginevra per presentare “Ma che Colpa Abbiamo Noi”, il film che dopo due anni di pausa seguiva “C’era un Cinese in Coma”. La sera mi portarono a vedere Svizzera-Italia (30 aprile 2003 – Svizzera-Italia 1-2 ndr) e durante il riscaldamento prepartita Pelizzoli e Panucci, vedendomi seduto quasi a bordo campo, vennero a ringraziarmi per essere venuto allo stadio. Ancora oggi vedo Panucci quando vado a Milano».
Come giudichi la rosa della Roma? Più, o meno completa di quella della scorsa stagione?
«La rosa è meno completa. I limiti attuali sono nel numero, negli infortuni, e nelle troppe amnesie di cui la squadra soffre nel corso delle partite. L’attacco è più forte dell’anno scorso, Džeko ha ritrovato la fiducia in se stesso. Però abbiamo perso degli elementi essenziali che se fossero rimasti ci avrebbero portato a vincere il campionato. Capisco le esigenze di bilancio, ma se vuoi vincere non devi mai lasciar partire i migliori, altrimenti sei costretto a ricominciare ogni volta daccapo».
Quale elemento potrebbe fare la differenza in favore della Roma?
«Lo stadio nuovo. La Roma ha bisogno di diventare una società moderna. Deve avere uno stadio tutto suo, strutturato in modo tale da consentire ai suoi tifosi di essere tutti seduti vicini al campo da gioco. Quarantacinquemila posti al massimo, tutti vicini ai giocatori perché in questo caso è anche più facile essere individuati quando non ci si comporta secondo le regole. Sono certo che, così responsabilizzati, non succederebbe più niente di disdicevole. L’Olimpico ci ha regalato tanti bei ricordi (alcuni anche tristi) ma adesso ha fatto il suo tempo. Lo stadio nuovo sarebbe sempre pieno. Giocare con gli spalti vuoti è scoraggiante, tutti i giocatori mi hanno ripetuto più volte che l’assenza di pubblico è un turbo in meno. Spero che il cancro della burocrazia, che è il male di questo Paese e di questa città, si metta un po’ da parte e ci consenta di costruire questo impianto».
Ammesso che si possa scegliere, su quale competizione punteresti tra campionato, Europa League e Coppa Italia?
«Io punterei tutto sull’Europa League, e non sul campionato dove siamo troppo svantaggiati nel competere contro la Juventus che è riuscita ad allestire non una ma due squadre: una, perfetta, che sta in panchina, e l’altra, perfetta, che scende in campo. Quindi, dovendo proprio scegliere, punterei sull’Europa League piuttosto che sulla solita Coppa Italia che abbiamo vinto già nove volte».
Giocar bene e giocar bello. Dove il Giocar Bene è finalizzato al conseguimento del risultato, e il Giocar Bello è indirizzato all’appagamento estetico. Spalletti è il mister che meglio riesce a conciliare le due cose. Te, come regista, devi affrontare le stesse problematiche: da una parte la qualità del prodotto, dall’altra il successo di pubblico. Come fai?
«Chi fa commedia, deve cercare di combinare le cose. Però è anche vero che se tu fai un buon film, anche se sulla carta non ha quegli elementi di comicità basilare per un pubblico più popolare, quel prodotto ti darà comunque delle soddisfazioni. Ad esempio, “Maledetto il Giorno che t’ho Incontrato” è un film che tratta di due nevrotici. Non è parlato in romanesco, non ci sono battute. C’è Margherita Buy, l’attrice meno “italiana” e più “europea” che ci sia. Quel film mi ha regalato enormi soddisfazioni malgrado io abbia tentato di scrivere una sceneggiatura un pochino più raffinata. Nel calcio bisognerebbe saper sposare qualità e pragmatismo. Non tutti ci riescono. Forse soltanto il Barcellona. Però se uno non si piace troppo, e non diventa troppo narciso, quel Giocare Bello può diventare anche efficace. Ecco, la Roma, a volte, si piacicchia un po’ troppo».
A cosa attribuisci il fatto che, nell’ambiente artistico, ci sia una percentuale di romanisti infinitamente più grande che in qualsiasi altro contesto?
«Questo dipende dal fatto che, nel nostro ambiente, ci sono molti furbacchioni che per catturare una fetta di pubblico più vasta scelgono la squadra della città in cui lavorano. Non credere alla sincerità di tutti. Molti dicono di essere grandi romanisti, poi non vanno mai allo stadio e si informano solo raramente sulle vicende della squadra. I tifosi veri sono pochi…».